Sì al memorandum... a chi giova?

di Roberto Donà* pubblicato il 19/03/19

Italiani: popolo di poeti, navigatori, santi, commissari tecnici ed in questi giorni anche grandi esperti di relazioni internazionali, ma soprattutto di Cina. Tutti che parlano del Memorandum of Understanding (MOU) senza averne titolo e a vanvera di quello che i cinesi ci faranno semmai dovessimo dare loro le chiavi di casa.


Che io sia abbastanza critico nei confronti dei presunti esperti di Cina è cosa nota, ma credo che questa volta si sia passato veramente il limite della decenza. Questo avvenimento ha scatenato una massa multiforme di sinologi, sinotuttologi, sinofili, cinofili e cinefili che basandosi su Wikipedia e altre fonti certificate si sono messi a dibattere di via della Seta, Belt and Road, arrivando perfino a rievocare il piano Marshal (sic!).


In realtà i promessi sposi stanno giocando una partita diversa ed il documento sarà svuotato di contenuti critici, perché a entrambi serve che ci sia un contenitore, piuttosto che il suo contenuto. Alla Cina interessa poco dell’Italia nello specifico, ma guarda alle sue esigenze in modo molto più allargato; all’Italia viceversa la Cina interessa non tanto quanto parte di una nuova politica estera, quanto piuttosto come mezzo per perseguire obiettivi interni. Come quasi sempre avvenuto da noi!


Che cosa interessi alla Cina è stato magistralmente spiegato da Alberto Forchielli – che la Cina contrariamente ad altri la conosce veramente - in una sua recente intervista (http://www.podcastgarden.com/login/audio-6/6528/10209798.mp3). Chi come me vive e lavora in Cina svolgendo anche attività che implicano un minimo di relazione con il tessuto economico locale sa che tra tecnologia, infrastrutture e mercato ai cinesi interessa fondamentalmente l’accesso al mercato, in quanto la tecnologia la comprano di già. Infatti la nostra attenzione cade sempre su grandi imprese ritenute strategiche, a torto o a ragione, mentre difficilmente vengono tracciate le molte trattative tra imprenditori che non necessariamente richiedono un sostegno governativo, per le quali anzi spesso è meglio che tale supporto non ci sia del tutto. La tecnologia interessante spesso è in queste imprese e quelle che interessavano sono già entrate nel portafoglio di Pechino.

Rispetto all’infrastruttura invece i cinesi sanno che molti progetti infrastrutturali richiedono investimenti che difficilmente si ripagano e usano le risorse per aumentare la loro capacità di influenza all’interno di un Paese. È successo con economie povere e/o emergenti (si veda a tal proposito l’allarme lanciato da Christine Lagarde - https://www.ft.com/content/7b7f9db2-3dec-11e8-b7e0-52972418fec4) ma non credo – o almeno spero - che ci considerino allo stesso livello e quindi molto probabilmente oggi più che investire in porti, ponti o collegamenti ferroviari, sono preoccupati che noi si faccia il nostro compito portando a termine, una volta tanto, i nostri impegni. Cosa di cui non sono per niente sicuri e il tiremmolla sulla firma del MoU sulla Nuova via della Seta non ha certo contributo ad aumentare la nostra credibilità.


Un altro tra i profondi conoscitori della Cina, Francesco Sisci, in un suo intervento durante la trasmissione radiofonica “I Conti della Belva” (http://audio.radio24.ilsole24ore.com/radio24_audio/2019/190316-conti-belva-s.mp3 dal minuto 26 circa) condotta tra gli altri da Carlo Alberto Carnevale Maffè ed Oscar Giannino, ha proprio spiegato il disorientamento Cinese di fronte a quanto sta succedendo.


Cosa succederà è abbastanza prevedibile. Un documento all’acqua di rose sarà comunque firmato; i cinesi avranno raggiunto l’obiettivo di cooptazione, seppur morbida, di un Paese G7; qualcuno strumentalmente griderà allo scandalo, qualcun altro sempre strumentalmente plauderà.


L’Italia nel suo complesso mostrerà una volta di più quella debolezza strutturale nella politica estera che ci portiamo appresso da più di 20 anni. Nell’Italia della cosiddetta seconda Repubblica, di un’alternanza politica che non si è mai compiuta, i governi si sono succeduti avendo come primo obiettivo quello di smontare quanto veniva fatto in precedenza. Se internamente la cosa è comprensibile anche se per niente condivisibile, all’esterno non lo è proprio per niente. Un Paese deve avere un posizionamento strategico ed un sistema di alleanze ben definito e di lungo periodo. Noi siamo un paese NATO, un’economia importante del sistema europeo e abbiamo nel passato goduto di una posizione geografica strategica che ci ha permesso qualche libertà senza che però venissero mai meno le linee guida e l’essenzialità delle nostre relazioni primarie.

Il governo sa bene quali sono queste relazioni primarie e quindi questo strappo verso est si giustifica solo se la partita non è estera ma interna. Ne sono profondamente convinto, perché ognuno dei tre attori fondamentali (in ordine strettamente alfabetico Di Maio, Geraci, Salvini) in questo momento sta pensando al proprio futuro.

Chi scrive non è un politologo ma un osservatore lontano… dunque azzardo.


Il Ministro Di Maio vive l’anomalia di essere il capo politico del Movimento 5 Stelle. Un capo politico nominato per statuto non si è mai visto – se non in regimi che propriamente democratici è difficile definire – perché il capo politico viene determinato dal consenso che nasce dalla base. Base che peraltro è difficile intercettare perché è su di una piattaforma gestita da altri. Se a questo si aggiunge il vincolo dei due mandati, il ritorno di “DIBA”, la possibilità di essere spento con la stessa velocità con cui si è stati accesi, è evidente che il problema del nostro è di evitare di fare la meteora (si pensi per esempio a IDV e Rete) e di avere un proprio partito stabilmente all’interno del sistema politico. Un alleato nuovo che può sparigliare il sistema esistente potrebbe essere il mezzo per raggiungere lo scopo. Da cui il desiderio di intestarsi il MoU.

Il sottosegretario Geraci invece conosce bene i limiti del proprio ruolo. Nel passato nei suoi interventi in rete ha spesso denunciato l’anomalia politica di presidenti del consiglio non eletti (salvo poi dover rispondere a sua volta ad uno non eletto che per quanto mi riguarda, come tutti i suoi predecessori, è legittimamente al suo posto) e di governanti tecnici. Michele (scusa la confidenzialità) sa che finita l’esperienza di governo un tecnico torna al suo mestiere di tecnico a meno che non sia stato capace di affermarsi con un sostegno politico, che altro non è che un portafoglio di voti significativo. Siccome al nostro sottosegretario il suo lavoro attuale piace ecco il colpo da maestro che non è il MoU, il cui padre non può che essere il suo capo al MISE, quanto la visita di Xi Jinping a Palermo. Con la visita a Palermo del Presidente cinese la notorietà di Geraci nel territorio crescerà e sarà quasi naturale a quel punto spuntare una candidatura alle Europee. Con un gruzzolo di voti forte, nel presumibilmente primo partito italiano, nella città sua e del Presidente della Repubblica, in un prossimo quasi inevitabile rimpasto il nostro sottosegretario spunterà un ministero di primo livello avendo completato la mutazione tra tecnico e politico. Bravo, furbo e scaltro come sempre!


E infine c’è il ministro Salvini. Dei tre è l’unico che ha fatto gavetta politica e quindi l’unico che sa come la sua situazione presenti opportunità ma anche rischi. È il segretario del primo partito italiano, come sembrano indicare i sondaggi, ma non ha la pattuglia più numerosa in parlamento. Ambisce a fare il primo ministro, come è comprensibile, ma sa che nel parlamento attuale è difficile, mentre andare alle elezioni porterebbe al tipico paradosso italiano di chi vince perde!
Con i 23 miliardi legati all’aumento IVA che incombono tutti sanno che nessuna delle promesse elettorali potrà essere mantenuta a costo zero e quindi forse Salvini potrebbe fare sì il pieno di voti e deputati in caso di nuove elezioni, ma poi si troverebbe a scrivere la finanziaria dovendo gestire una realtà diversa da quella raccontata.


Ecco perché per lui è preferibile una situazione in cui a Palazzo Chigi ci arrivi continuando a condividere la responsabilità delle decisioni con le stelle (cadenti) di Di Maio, svuotandole poco a poco delle carte elettorali (il TAV si farà, il RdC sarà alla fine una copia degli attuali ammortizzatori sociali, i Benetton continueranno a gestire le autostrade e l’acqua sarà sempre in mano a municipalizzate quotate). In questo essere la sponda credibile per i nostri alleati storici è fondamentale avendo comunque Geraci, un suo uomo, capace di parlare con i cinesi, riportando cioè l’Italia ad essere capace di giocare su entrambi i fronti della guerra economica in corso.


In conclusione cosa cambierà nei rapporti Italia e Cina dopo la firma del MoU?
Credo poco se non proprio niente.
Se capiranno che in fondo scherzavamo, continueranno a guardarci con simpatia, forse aumenterà il flusso turistico in Italia, la Cina sarà invasa da arance tarocche e sarà sicuramente curioso vedere i pirotecnici risultati che raggiungerà l’export italiano verso la Cina comparandoli a quelli di altri paesi. Questo per quanto riguarda la superficie. Sotto il livello dell’acqua in modo opportunistico e mirato continueranno a guardare alle nostre risorse e capacità, perché sanno che per quanto noi si sia difficili da gestire siamo comunque capaci di integrarci con loro meglio di chiunque altro.
Se invece il MoU sarà da parte della Cina preso molto seriamente, beh allora c’è da augurarsi che i nostri eroi sappiano quello che fanno.
Ai curiosi non posso che consigliare di leggere nei prossimi giorni il South China Morning Post con una certa costanza e attenzione!

Professor of Practice in Management, Associate Dean for Corporate Engagement, International Business School Suzhou (IBSS) at Xi'an Jiaotong-Liverpool University