di Davin Chor pubblicato il 26/10/19
“È la fine del mondo che conosciamo”, recita il testo di una canzone della metà degli anni Ottanta della gruppo rock REM. Parole che fotografano fedelmente l’inquietudine delle aziende manifatturiere che dipendono dalle catene di fornitura globali, che si stanno affannando a far fronte alle conseguenze della guerra dei dazi in corso tra gli Stati Uniti e la Cina.
Prima del 2016, il mondo si era abituato a un numero ridotto di barriere commerciali. I dazi sui manufatti – incluse parti e componenti o prodotti semilavorati – erano diminuiti per decenni, a mano a mano che altri paesi entravano nell’Organizzazione mondiale per il commercio (Omc) e venivano sottoscritti nuovi accordi commerciali regionali. L’arrivo delle moderne tecnologie della comunicazione e il crollo dei costi del trasporto aereo avevano permesso alle aziende di ottenere guadagni maggiori servendosi di fornitori all’estero. Ciò aveva di conseguenza allargato il raggio di prodotti – anche relativamente specializzati – che potevano procurarsi in maniera affidabile all’estero.
Le aziende manifatturiere trassero vantaggio da questo contesto e frammentarono le loro catene di produzione attraverso diversi confini, dove approfittarono della disponibilità di manodopera a basso costo e della vicinanza ad alcuni mercati chiave. La Cina fu senz’altro uno dei maggiori beneficiari, e la sua forte integrazione nelle catene di fornitura globali rappresentò uno dei motori principali del boom delle sue esportazioni.
La guerra tariffaria tra Stati Uniti e Cina ha mandato tutto all’aria. Quando nel 2018 vennero decretati i primi aumenti dei dazi, la maggior parte delle aziende rimase ottimista. Ma arriviamo alla metà del 2019: mentre sia gli Stati Uniti che la Cina hanno irrigidito le rispettive posizioni le compagnie hanno raggiunto la triste consapevolezza che i dazi sono qui per rimanerci. L’obiettivo dell’attuale amministrazione statunitense sembra essere il cosiddetto “disaccoppiamento” delle economie degli Stati Uniti e della Cina. In altre parole, in questa guerra dei dazi le catene di fornitura globali non sono solo un danno collaterale. Esse rappresentano piuttosto un obiettivo primario, con l’attuale amministrazione Usa che apparentemente vuole ridurre la dipendenza degli Usa dalla Cina come partner commerciale e di filiera.
Il 2019 già si annuncia un anno pessimo per i flussi commerciali Stati Uniti-Cina. Secondo lo US Census Bureau, il valore delle importazioni statunitensi dalla Cina è diminuito significativamente (di oltre il 9%) su base annua per ogni singolo mese per il quale finora i dati sono disponibili. La flessione più rilevante si è registrata a marzo, quando il valore delle importazioni è sceso da 38,3 miliardi di dollari a 31 miliardi di dollari, -18,7% rispetto allo stesso mese del 2018. Se è probabile che l’interruzione delle catene di fornitura tra Stati Uniti e Cina rappresenti una grossa fetta di questo declino, sarà necessario aspettare dati più precisi per avere un quadro più chiaro.
Chi lavora con le catene di fornitura le sta provando tutte. Alcuni accelerano gli ordinativi delle loro aziende nel tentativo di arrivare prima delle date di entrata in vigore dei dazi. Altri cercano al di fuori della Cina fonti alternative da cui rifornirsi, come primo passo per una riorganizzazione complessiva delle loro strategie di filiera. Si tratta di cambiamenti in teoria facili, ma in pratica assai complicati. Fornitori al di fuori della Cina come, ad esempio, il Vietnam a quanto pare non hanno la capacità di soddisfare l’attuale improvviso aumento della domanda. E ne pagano le conseguenze sia le piccole aziende manifatturiere sia i grandi brand.
Quali ripercussioni avrà tutto questo sul futuro delle catene di fornitura globali? Alcuni considerano i dazi degli ultimi due anni come semplici incidenti di percorso: quando si tornerà a ragionare con calma, si tornerà allo status quo ante. Ma questa visione ottimistica minimizza le possibili ripercussioni di lungo termine della guerra commerciale.
I recenti sviluppi infatti possono accelerare l’erosione della competitività della filiera della Cina in industrie ad alta intensità di lavoro come il tessile, l’abbigliamento, le scarpe e i giocattoli. Già prima del 2016, l’aumento del costo della manodopera e le preoccupazioni sulla qualità dei prodotti stavano danneggiando l’attrattiva della Cina come centro di produzione in questi settori. La guerra dei dazi rafforza queste preoccupazioni. Ciò di per sé può non rappresentare lo sviluppo peggiore – perché dà alla Cina l’opportunità di rafforzare i suoi sforzi per ristrutturare la sua economia e virare in maniera più decisa verso attività manifatturiere ad alto valore aggiunto nei settori dell’elettronica, dei semiconduttori e delle attrezzature per le telecomunicazioni.
Tuttavia è probabile che nel breve periodo i lavoratori cinesi colpiti da questa transizione strutturale ne paghino il prezzo. Il rallentamento delle esportazione della Cina tra il 2013 e il 2016 fu accompagnato da un aumento degli scioperi che attirò rapidamente l’attenzione delle autorità, preoccupate per il mantenimento della stabilità sociale. Con la guerra tariffaria in corso, gli sconvolgimenti economici e l’impatto sui lavoratori a mano a mano che gli ordini dalle catene di fornitura cinesi si esauriranno dovranno essere affrontati attentamente dalle autorità.
Da parte degli Stati Uniti non esiste alcuna garanzia che le prossime amministrazioni si riconvertano e sostengano il libero commercio. Il Partito repubblicano ora ha una consistente fazione anti-commercio che con ogni probabilità sopravviverà al mandato del presidente Trump. Nello stesso tempo, il Partito democratico vede tradizionalmente con sospetto l’apertura al commercio internazionale, a causa delle preoccupazioni dei lavoratori americani e del problema dell’aumento delle diseguaglianze.
In conclusione, il vaso di Pandora è stato scoperchiato. E i prossimi presidenti degli Stati Uniti – seguendo l’esempio di Trump - potrebbero essere tentati anche loro di imporre sanzioni unilaterali per perseguire obiettivi di politica interna. Le aziende devono aspettarsi che le loro scelte sulle filiere globali verranno esaminate sempre più dalla politica e potrebbero addirittura subire critiche da parte dell’opinione pubblica. Quest’incertezza si estende al di là del commercio internazionale. Le aziende che cercano di effettuare investimenti esteri diretti per assicurarsi un migliore appiglio locale per le loro attività di filiera devono aspettarsi maggiori ostacoli politici, in particolare quelle industrie che vengono giudicate sensibili da un punto di vista tecnologico, come dimostra la saga di Huawei.
Tratto da EASTASIAFORUM
Davin Chor è professore associato presso la Tuck School of Business del Dartmouth College (Stati Uniti)