Una profezia su cui meditare

di Franco Mazzei pubblicato il 13/02/19

Il Trattato di Versailles, firmato da 44 Stati il 28 giugno 1919 nella Galleria degli Specchi della Reggia di Versailles, è il principale trattato nell’ambito della Conferenza di pace di Parigi che poneva ufficialmente fine alla carneficina Grande Guerra. Protagonisti del complesso negoziato, su cui erano poste tante speranze di pace, furono i Quattro Grandi: il Presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson, il Primo Ministro francese George Clemenceau, il Primo Ministro del Regno Unito David Lloyd George e il Presidente del Consiglio italiano Vittorio Orlando. I “perdenti” - Germania, Austria ed Ungheria - non parteciparono alla conferenza, ma firmarono il trattato finale sotto la minaccia dei vincitori di una possibile ripresa della guerra. Il Trattato non fu ratificato dagli Stati Uniti, che nel frattempo erano ritornati al tradizionale isolazionismo. Doveva essere un trattato di pace, fu invece un armistizio durato un lungo e terribile ventennio.



Oggetto di queste riflessioni è il Trattato di Versailles a cento anni dalla sua firma: un trattato che, contrariamente a come si sperava, non creò un nuovo ordine internazionale e condizioni di stabilità e di pace. Infatti, tradizionalmente il Trattato di Versailles è visto come una gestione della vittoria frutto d’imperizia negoziale, di sopraffazione e di rancore, e nello stesso tempo di irrealizzabili aspirazioni idealistiche. Proprio per le dure e umilianti condizioni imposte alla Germania dalle nazioni vincitrici, si parlò fin da subito di una “pace cartaginese”, con riferimento alla politica spietatamente punitiva di Roma dopo la Seconda e specie dopo la Terza Guerra Punica, per cui Cartagine fu rasa al suolo e la sua popolazione ridotta in schiavitù. Già nelle scuole medie abbiamo appreso la famosa frase pronunciata da Marco Porzio Catone, detto il Censore, al termine di ogni suo discorso al Senato: Carthago delenda est!

L'espressione “pace cartaginese” fu popolarizzata nella prima parte del XX secolo dal saggio Le conseguenze economiche della pace (Mursia, 2007) scritto dall’economista britannico John Maynard Keynes nel dicembre del 1919, appena sei mesi dopo la firma del Trattato. Il libro - una feroce analisi dell’esito punitivo di una pace foriera di nuovi conflitti - ebbe un successo strepitoso in tutto il mondo, suscitando un dibattito storiografico che continua ancora oggi, ma anche severe stroncature. Ricordiamo quella di un giovane economista liberale francese, Étienne Mantoux, che è una puntuale requisitoria dell’analisi fatta da Keynes. Il lavoro di Mantoux fu pubblicato postumo, nel 1946, nello stesso anno della morte del grande economista britannico: esso funse da contrappeso alle lodi rese dalla stampa britannica al più influente economista del XX secolo morto proprio in quell’anno, e divenne esso stesso oggetto di dibattito tra gli specialisti. (E. Mantoux, La paix calomniée ou les conséquences économiques de M. Keynes, 1946).

Keynes aveva partecipato alla conferenza per la pace di Versailles come delegato del Cancelliere dello Scacchiere britannico, ma si era dimesso da quell'incarico con intento polemico proprio per le condizioni imposte alla Germania, secondo lui inaccettabili. Nel rassegnare le dimissioni dall’incarico, scrisse al suo capo missione, il Primo Ministro Lloyd George: “La battaglia è persa. Lascio ai Gemelli (cioè al Presidente degli Stati Uniti Wilson, il grande perdente, e al Presidente francese Clemenceau, il grande vincitore) di godersi la devastazione dell’Europa...”. La tesi del Trattato di Versailles come “pace cartaginese” è stata riproposta da numerosi studiosi; tuttavia, come vedremo, non mancano pregevoli studi “revisionistici”. Comunque sia, di “pace cartaginese” si parlò anche riguardo al Piano Morgenthau, presentato dagli Stati Uniti subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, in quanto imponeva la deindustrializzazione della Germania e impediva la sua ri-militarizzazione. Ma quella volta gli Stati Uniti seppero far tesoro della lezione di Keynes, e il Piano Morghenthau fu presto abbandonato, sostituito dal Piano Marshall.



Dell’analisi di Keynes colpisce in particolare la lucidità con cui, a conclusione del suo saggio, egli profetizza gli effetti devastanti dei risultati del Trattato: “Se mireremo deliberatamente a impoverire l’Europa centrale, la vendetta – oso predire – non si farà attendere. Niente potrà allora ritardare a lungo quella finale guerra civile fra le forze della reazione e le convulsioni disperate della rivoluzione, rispetto alla quale gli orrori della passata guerra tedesca svaniranno nel nulla.” Tenuto conto delle disastrose conseguenze delle guerre avvenute dopo la fine del bipolarismo, e dell’ormai logorato sistema vestfaliano (con la sua persistente logica territoriale), è questa una profezia su cui, in occasione del centenario del Trattato, tutti dobbiamo meditare per evitare un’analoga tragedia in un mondo come quello di oggi che è in rapida e radicale trasformazione (in conseguenza di macrofenomeni in atto come la globalizzazione e la digitalizzazione) e lacerato da pericolose rivendicazioni geopolitiche e sovraniste.

Non sono uno storico specialista del settore, e le mie riflessioni sono per lo più teoriche e di natura politologica, per cui al microscopio, che è lo strumento usato dallo storico per le sue puntuali e preziose ricerche, sostituirò il cannocchiale rovesciato che permette al geopolitico di vedere in lontananza, ma con nitidezza e linearità, le traiettorie politiche di lungo periodo. Mi son preso la facoltà di qualche breve excursus in campo sinico, a ciò spinto dalla mia vocazione estremorientalistica e, soprattutto, dal sito di pubblicazione. Si è deciso di presentare questo piccolo contributo centrato essenzialmente sul complesso rapporto tra guerra e pace perché fermamente convinti che una migliore conoscenza di ciò che avvenne a Parigi cento anni fa - una «pace mancata», uno dei fallimenti più decisivi e disastrosi del ventesimo secolo (F. Cardini e S, Valzania, La pace mancata, la conferenza di Parigi e le sue conseguenze, 2018) - e in particolare di come ciò avvenne, possano servire in futuro ad evitare analoghi fallimenti e - riprendendo l’ammonimento recentemente riportato nelle pagine della rivista Limes (9/2016) riguardo alla “sindrome di Versailles” - a esortare i vincitori della eventuale prossima guerra a meglio gestire la vittoria e non perdere ancora una volta la pace.

I quattro grandi

Iniziamo la nostra analisi, sulla scorta del saggio summenzionato di Keynes, con una succinta presentazione dei protagonisti del negoziato, i cosiddetti Big Four.

- Il Presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson, accolto a Versailles come l’arbitro del negoziato e in Europa come il nuovo profeta. Anche in Cina aveva abbagliato gli intellettuali, compresi i futuri leader del Partito Comunista Cinese e lo stesso Mao. Fu insignito nel 1919 del Premio Nobel per la Pace per i meriti acquisiti nel Trattato di Pace.
In realtà, egli a Versailles fu il vero perdente, a causa delle sue stesse qualità: era idealista e riformatore, ma del tutto privo di concretezza progettuale e per di più aveva pessime capacità negoziali. “Assomigliava a un pastore non conformista, diciamo un presbiteriano. Il suo pensiero e il suo temperamento erano teologici non intellettuali” (Keynes). Il suo verbo era la Società delle Nazioni, ma non riusciva ad andare al di là delle tavole della fede. Non voleva un trattato troppo duro nei confronti dei vinti perché ciò avrebbe portato alla revenge, eppure ne firmò uno “cartaginese”. Egli non capiva i profondi sentimenti di odio che in quel periodo tormentavano l’Europa. Ironia della sorte, gli stessi Stati Uniti, riconvertiti nel frattempo all’isolazionismo, lo abbandonarono: clamorosamente sconfessarono la sua politica non ratificando il Trattato e non entrando a far parte della Società delle Nazioni.

- Il Primo Ministro Francese George Clemenceau, detto “la Tigre”, era il padrone di casa. Fu intransigente e implacabile con la Germania.
“Egli sentiva per la Francia ciò che Pericle sentiva per Atene, ma il suo modo di negoziare era duro come quello di Bismark”. Aveva visto la Francia umiliata a Sedan nel 1870, una sconfitta che pose fine al Secondo Impero, e poi invasa dalla Germania nel 1914. Alieno dai compromessi, voleva la “vendetta” e la certezza che ciò non si sarebbe mai più ripetuto. Per l’anziano statista la sola pace possibile era mettere in ginocchio la Germania politicamente ed economicamente: in breve, una pace cartaginese, lasciando poi ai tecnici il compito di trovare i trucchi formali per risolvere le contraddizioni con i 14 punti di Wilson e salvare così la faccia di quest’ultimo. Poiché la Francia aveva subito notevoli perdite e grandi distruzioni, voleva anche adeguate compensazioni. Egli risultò il vero vincitore del negoziato.

- Il Primo Ministro inglese David Lloyd George, politico navigato e abile diplomatico.
Il suo è il ritratto più sarcastico fatto da Keynes, secondo il quale egli era dotato di più dei cinque sensi dei comuni mortali, disponendo di doti empatiche quasi medianiche. Secondo Keynes, nel triangolare “intrigo” che si svolgeva a Versailles, la “Strega gallese”, proveniente dai boschi incantati dell’antichità celtica, rappresentava una “femme fatale” tra un anziano uomo di mondo (Clemencau) e un prelato non conformista (Wilson). Egli era un realista e per natura incline al compromesso: aveva compreso che con la dissoluzione dell’impero austro-ungarico sarebbe venuta a mancare una barriera alla nascente Unione Sovietica e che un trattato troppo duro con la Germania avrebbe portato ad una nuova guerra; ma sapendo anche che il popolo britannico voleva la revenge, si limitò a portare a casa quello che aveva promesso ai suoi elettori: “far pagare alla Germania le spese della guerra”.

- Il Presidente del Consiglio italiano Vittorio Orlando, figura evanescente e “dalla lacrima facile”, come cinicamente lo bollò il prostatico vegliardo Clemenceau vedendolo continuamente in lacrime per le umiliazioni che, a suo dire, gli Alleati infliggevano al nostro Paese.
Keynes parla sempre dei Quattro Grandi, in realtà è interessato essenzialmente ai tre dell’“intrigo” summenzionato. Orlando voleva semplicemente compensi territoriali, come concordato segretamente con il Patto di Londra del 1915, reso pubblico dai bolscevichi appena preso il potere. Di grave nocumento a questa richiesta fu, oltre al principio di nazionalità di Wilson, il dissidio tra Orlando, che si accontentava dell’annessione di Fiume, e il Ministro degli Esteri Sidney Sonnino, che invece richiedeva anche la Dalmazia. Questo disaccordo ebbe come risultato che l’Italia non ottenne nessuno dei due territori e nello stesso tempo fornì l’occasione a Wilson di umiliare pubblicamente Orlando, mettendo in dubbio che egli avesse la fiducia del proprio Paese. La reazione del Presidente del Consiglio fu l’abbandono della conferenza in aprile, per tornarci per la firma del Trattato avvenuta il 28 giugno del 1919. Più in generale, la delegazione italiana non offrì un bello spettacolo: come in modo acido annotò qualcuno, Orlando lacrimava molto ma parlava poco, anche perché non conosceva bene il francese (a quel tempo la lingua della diplomazia), mentre Sonnino non parlava di suo.

Come vedremo in dettaglio, il compito dei Quattro era effettivamente arduo: “quella che fin da subito apparve una pace difficile si trasformò in una pace impossibile” (C. Klein, La Republbica di Weimar, 1968). Prima di esaminare le difficoltà oggettive di varia natura che rendevano particolarmente complessa la gestione di quella vittoria, ci soffermeremo sul cruciale e ambiguo rapporto tra guerra a e pace.

Rapporto tra pace e guerra

Nelle Relazioni Internazionali il termine “pace” indica in genere una situazione di non belligeranza tra nazioni o all'interno di uno stesso Stato. In termini più generali, indica la stabilità del Sistema Internazionale, che spesso è imposta da una potenza egemone: in questo caso, soprattutto nei mas-media, si preferisce l’espressione latina PAX, come Pax Romana, Pax Britannica, Pax sinica (?). Ma oggi il termine pace è usato anche per indicare qualcosa di più di una semplice situazione di non belligeranza o di assenza di instabilità politica. Ad esempio, Johan Galtung, fondatore nel 1959 dell'International Peace Research Institute, ha dato una specificazione al concetto di pace distinguendo tra pace negativa (assenza di violenza personale causata da guerre, atti di terrorismo ecc.) e pace positiva (assenza anche di violenza strutturale, cioè prodotta da situazioni strutturali della società, come discriminazioni, povertà ecc.). Vi sono poi alcuni studiosi normativi, cioè interessati alla realtà non così come è ma come vorrebbero che fosse, per i quali la nozione di pace implica il ripudio della guerra. In posizioni estreme, il pacifista è il sostenitore della pace "senza se e senza ma”.

Nel mio intervento, userò la nozione di pace come una delle due dimensioni essenziali della Politica Estera di uno Stato. In effetti, questa può essere vista come un continuum che si snoda, sotto la responsabilità del POLITICO, tra fasi caratterizzate da rapporti conflittuali (gestiti dal GENERALE) e collaborativi (gestiti dal DIPLOMATICO): in breve, un continuum tra guerra e pace. Di norma, si ricorre al fucile quando fallisce la diplomazia, anche se oggi la distinzione tra diplomatico e soldato si sta affievolendo.

Ma in concreto come si garantisce la pace? Uno strumento usato a questo scopo, specie dopo la fine della Guerra Fredda, è l’istituto noto come Peace-Keeping Operation, PKO. Quest'ultimo, creato per il mantenimento della pace, ha subito una profonda evoluzione nell’ultimo mezzo secolo, per cui è possibile distinguere due tipi di PKO: quelle di prima generazione che sono operazioni non coercitive per il “mantenimento” della pace, quindi realizzato con il consenso delle parti in base al cap. VI della Carta dell’ONU, e quelle di seconda generazione, che sono coercitive, paramilitari e militari, in base al cap. VII, cui si ricorre per “imporre” la pace. Si è fatto ricorso a queste PKO dopo la fine della gestione bipolare del Sistema Internazionale, per lo più in guerre civili, disordini interni, per interventi umanitari.

Ma è davvero possibile “imporre” la pace? Per il noto vignettista ALTAN, imporre la pace puzza di ossimoro, una contradictio in terminis come si diceva una volta: è un po’ come pretendere di far convergere due rette parallele. La pensava allo stesso modo John Lennon sostenendo che combattere per la pace e come fare l’amore per la verginità…

Al contrario, imporre la pace anche manu militari non era affatto una contraddizione per i Romani, i quali, a differenza dei greci, erano più inclini a menar di gladio che a giocare di logica (quindi scarsamente attenti al principio di non-contraddizione, che Aristotele parrebbe aver teorizzato per fornire rigide regole logiche ai predicatori dell’Agorà). I Greci, infatti, erano interessati non alla guerra ma ai frutti della pace (cioè della vittoria): il buon governo, una maggiore ricchezza, più giustizia ecc. En passant, ricordiamo che nell’iconografia greca EIRENE, la dea della Pace, ha in braccio il piccolo Pluto con la cornucopia simbolo dell’abbondanza. Invece i Romani erano interessati alle condizioni che permettono la pace, insomma alla guerra. Per i Romani lo scopo della guerra era, per l’appunto, quello di pacem dare, o più correttamente leges pacis imponere. Da ricordare che “pacificare” il mondo era la missione che il Fato aveva assegnato a Roma: e per assolverla i Romani imponevano militarmente la legge romana.

Destino manifesto vs mandato celeste

In tempi vicini a noi, abbiamo sperimentato una concezione del rapporto pace-guerra non molto diversa da quella dei romani: mi riferisco al mito americano del “Destino Manifesto”, la Missione assegnata da Dio agli Stati Uniti di rendere migliore il mondo con l’imposizione delle proprie istituzioni democratiche attraverso l’esempio (City upon a Hill, la “città costruita sulla collina” che illumina il mondo), ma eventualmente anche con una bella guerra preventiva, come sciaguratamente avvenuto in Iraq nel 2003. E oggi?

Beh, oggi pare che un Mandato analogo abbia anche la Cina, ormai riconosciuta potenza globale e vista con sgomento in alcune cancellerie (in primo luogo al Dipartimento di Stato) come una potenza “revisionistica”, che vuole cambiare l’ordine mondiale per ricostituirlo a proprio vantaggio. Revisionista proprio come lo era la Germania guglielmina alla vigilia della Prima Guerra Mondiale e successivamente la Germania nazista (insieme all’Italia fascista e al Giappone tennoista). A parte il fatto che la Cina ormai appare come il più impegnato difensore dello status quo (perché dovrebbe ammazzare la gallina dalle uova d’oro?), in effetti nel nuovo clima di fervore neo-confuciano è molto diffusa a Beijing - sia tra politici e analisti sia nell’opinione pubblica - un’idea centrale della tradizionale politologia sinica, secondo cui il “governante” riceve dal Cielo il Mandato a governare a condizione però che egli operi nell’interesse del popolo, pena la “revoca del mandato” che in cinese è detto gemim. Questo termine oggi nel linguaggio comune significa semplicemente “rivoluzione”, ovvero cambio di regime.

(Decodificazione transculturale: questo strumento euristico del Mandato Celeste si può applicare naturalmente anche alla Cina di oggi. Per esempio, se dovesse fallire il progetto lanciato da Deng nel 1978 di inserire la Cina nel capitalismo mondiale, allora il PCC perderebbe il Mandato Celeste e quindi (come le passate dinastie imperiali) sarebbe delegittimato. Ciò ci aiuta a comprendere che cosa effettivamente spinse il mite e prudente “piccolo timoniere” nel 1989 alla feroce repressione di Piazza Tianmen, e che cosa spinge oggi il decisionista Xi Jinping ad un ulteriore rafforzamento del Partito e del controllo sociale: evitare “l’affondamento di tipo sovietico” per usare un’espressione popolare tra gli analisti cinesi; in breve, “la revoca del Mancato Celeste”).


A questo riguardo, ricordiamo che nella tradizione politologica confuciana il Cielo non è una banale metafora o qualcosa come il nostro Paradiso o i Campi Elisi dei Romani. È una nozione ontologica fondamentale: un’entità di natura etica che mira a mantenere “l’armonia” nel mondo e che, come ho detto, decide della legittimità dei governanti in base alla qualità del loro comportamento politico. Si spera che Xi Jinping, nella sua nuova geopolitica delle “connessioni”, segua effettivamente il precetto confuciano della “armonia nel rispetto della diversità” (in cinese he er bu dong), che nel gergo politico moderno possiamo tradurre con “approccio win-win”. Come già illustrato in questo sito (CSCC, Le connessioni di Xi Jinping, 6/2/18), la geopolitica del Presidente cinese ha come traiettoria il superamento dello Stato vestfaliano con una nuova prospettiva che è coerente con la tradizionale concezione cinese del mondo: il Tianxia (“tutto ciò che sta sotto il Cielo”), un impero potenzialmente universale che ha come confini isobare culturali, teorizzato come “Ordine Mondiale Cinese” dal grande sinologo americano J. K. Fairbank.

Per quanto possa sembrare strano a molti europei, lo Stato vestfaliano – centrato sullo stato-nazione e il sovranitarismo territoriale - è un'istituzione relativamente recente, essendo in pratica un'eredità del XIX secolo. Nata dalla congiunzione particolare di interessi economici e sociali in Europa a partire dal Rinascimento, questa organizzazione politica riuscì a prevalere su modelli concorrenti rappresentati dalle città italiane e dalla Lega anseatica, anche perché la sua logica territoriale permetteva di mobilizzare le popolazioni e di organizzare le relazioni esterne in modo più efficace rispetto alle sue rivali. Istituzionalizzatosi con la Pace di Vestfalia del 1648, dopo la Guerra dei Trent'Anni, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, lo Stato-nazione è diventato (in Occidente) il referente esclusivo della storia, della politica, dell'economia e delle relazioni internazionali.

Come ci ricorda Francois Gipoloux, uno dei maggiori sinologi europei, perfino in Occidente oggi questa concezione di Stato, con il suo territorio inteso come superficie che ha quindi ha un perimetro (e frontiere da difendere o allargare), non è più l'unico referente per valutare la ricchezza o la potenza, essendo una nozione sempre meno utile euristicamente a causa della diffusione di fenomeni irreversibili (ma che dovrebbero essere controllati) come la globalizzazione dell'economia, la digitalizzazione della vita sociale a livello mondiale, la crescente rilevanza degli attori transnazionali nella politica globale, ecc. (La Méditerranée asiatique, 2009) Questi cambiamenti di fatto impongono la riformulazione di problemi territoriali non più in termini di superficie bensì i di “reti”, le quali non avendo un perimetro ma solo punti terminali possono sovrapporsi, congiungersi, combinarsi tra loro: insomma si possono connettere.

La geopolitica delle connessioni

Espressione di questa geopolitica delle connessioni del Presidente Xi è il faraonico progetto della Nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative, BRI) con cui, come s'è detto, si mira a superare l'ordine vestafliano palesemente inadeguato al mondo di oggi, sostituendo Vecchie Muraglie e nuovi muri (simboli di chiusura, esclusione, respingimenti) con imponenti infrastrutture connettive che innervino l'Eurasia (Africa compresa), ovviamente sotto il “benevolente” primato sinico. Un obiettivo magnifico, ma raggiungile? Beijing dovrà cercare di risolvere le tante e profonde contraddizioni che questo nuovo corso comporta: in primo luogo, paradossalmente, proprio la gestione della domestic jurisdiction, il principio vestfaliano della non interferenza negli affari interni di un altro stato, di cui finora Beijing è stata l'alfiere ma che è incoerente con la geopolitica delle connessioni. (M. Duchâtel, Géopolique de la Chine, 2017).

A conclusione di questo lungo excursus, è forse opportuno sottolineare una differenza sostanziale tra il Destino Manifesto americano e il Mandato Celeste cinese. Alla base della concezione olistica confuciana c'è la tensione verso l' “armonia”, e non - come nell'ontologia dualistica occidentale (Platone, Cristianesimo, Cartesio…) - verso una lotta mortale tra il Bene e il Male, tra l'Arcangelo Gabriele e Satana, tra realtà psichica e realtà fisica, tra “la Città sulla collina” e “l'Impero del male”…, il che spinge naturalmente ad atteggiamenti conflittuali (win-lose). Un'altra differenza, particolarmente enfatizzata dagli studiosi asiatici, è che la Cina e in genere l'Asia Confuciana non soffre del cosiddetto “complesso di Prometeo”, colui che rubò il fuoco (simbolo di conoscenza e progresso) a Zeus per darlo agli uomini, non sapendo rimanere nel limite che la divinità gli ha assegnato, rivelando così, secondo Esiodo, hibris, la tracotanza che va “oltre la misura”. Al contrario, perseguire la “via mediana” è ciò che accomuna normativamente tutte e tre le grandi dottrine del pensiero cinese: confucianesimo, taoismo e buddhismo.

La difficile gestione della vittoria

Tenendo conto di questo complicato rapporto tra guerra e pace, si capisce che realizzare quest'ultima anche solo nell'accezione di “pace negativa”, è già di per sé impresa difficile. Soprattutto difficile è saper gestire la vittoria; e per i negoziatori di Versailles del 1919 ciò costituì un'impresa particolarmente complessa, dopo un conflitto devastante come la Grande Guerra, la prima guerra totale della storia, nata quasi per caso come conflitto locale presto trasformatasi in mondiale. Una guerra il cui simbolo potrebbe essere la “trincea”, casa e tomba di milioni di soldati, e la cui violenza distruttiva fu tale da sconvolgere le coscienze al punto che si sentì il bisogno di istituire per la prima volta nelle università un corso specifico che studiasse il funzionamento delle Relazioni Internazionali, proprio al fine di evitare nuove guerre.
Impresa davvero ardua quella dei Quattro Grandi! Tanto per cominciare, l'atmosfera socio-politica nel 1919 era estremamente confusa e molto tesa in tutta l'Europa.

• I paesi europei erano sconvolti, con economie e apparati industriali in pessimo stato.
• Mancavano beni di prima necessità: cibo, medicinali, case.
• Quasi ogni famiglia aveva un membro morto in guerra.
• Nella maggior parte dei paesi europei si pensava che la Germania dovesse pagare per i danni e le immani distruzioni causate dalla guerra.
• La dissoluzione degli imperi continentali multietnici creava aspirazioni nazionalistiche di tanti popoli, peraltro rafforzate dalla politica wilsoniana dei 14 Punti.


Tensioni e proteste caratterizzarono l'immediato dopoguerra non solo in Europa. Proprio i risultati del Trattato di Versailles, considerati inaccettabili dagli studenti e dagli intellettuali cinesi, provocarono in Cina il Movimento del 4 Maggio (Wusi Yundong). Nel 1917 la Cina, come l'Italia due anni prima, si era alleata con la Triplice Intesa inviando in Europa un gran numero di lavoratori cinesi sul presupposto che a guerra conclusa si sarebbe risolto il problema delle concessioni tedesche, soprattutto la questione dello Shandong, la provincia che peraltro era stata promessa segretamente anche al Giappone (il quale nel frattempo l’aveva occupata militarmente). In Francia e in Inghilterra circa 140.000 cinesi prestarono servizio come lavoratori impegnati nella manutenzione di strade, ferrovie e trincee. (Xu Guoqi, China and The Great War. China’s Pursuit of a New National Identity and Internationalization, 205). Pertanto, se la vittoria fu percepita dagli italiani “mutilata” dalla intransigenza di Wilson sulla questione di Fiume, in Cina fu percepita come una vittoria “tradita” dagli alleati. (F. Wood e C. Arnander, Betrayed Ally - China in the Great War, 2016) In questo caso, infatti, il Presidente americano non seppe e non volle applicare (come invece fece con Fiume) il principio di nazionalità che era alla base del suo pensiero politico, anche perché non voleva inimicarsi Tokyo, attore considerato da Wilson essenziale per la creazione della futura Società delle Nazioni, specie dopo la rottura con l'Italia. Sicché la Cina partecipò alla Conferenza di pace in qualità di paese vincitore, ma fu umiliata come un paese vinto.

Il Movimento del Quattro Maggio, di cui proprio quest'anno in Cina si festeggia il centenario con particolare solennità, nacque come movimento patriottico contro il “tradimento di Versailles”: un nazionalismo rivolto sia contro il corrotto, imbelle e filogiapponese governo nazionale, sia contro le potenze le europee. Ma assunse anche una connotazione antiamericana, seppur “per reazione, non per vocazione” come annota l’editoriale di un recente mensile di Limes (“Non tutte le Cine sono di Xi”, n.11/2018). Il manifesto del movimento dichiarava: “Il territorio della Cina può essere conquistato ma non può essere dato via. Il popolo cinese può essere massacrato ma non si arrenderà”.

Represso dalla polizia, il Movimento si diffuse rapidamente in tutto il paese segnando l'inizio della modernizzazione del pensiero politico cinese all’insegna di due slogan: “abbattere la bottega di Confucio” (visto come causa storica della rovina del Paese), e “Mr. Democracy – Mr. Science” (in quanto strumenti per la rinascita). In breve, abbandonare la via confuciana e adottare modelli occidentali. Da rilevare che quello adottato in Cina era un modello di modernizzazione diverso da quello del Giappone Meiji (1868-19129, che alla sfida dell’Occidente aveva risposto acquisendo la “tecnologia occidentale” (yôsai) ma conservando gelosamente i “valori giapponesi” (wakon).

4 maggio 1919, gli studenti in piazza Tiananmen a Pechino

A tutt'oggi il Movimento del Quattro Maggio è ricordato come il Rinascimento cinese dal punto d vista sia politico-culturale sia scientifico nell'ambito del più vasto Movimento della Nuova Cultura (Xin Wenhua Yundong). In concreto, esso segna l'introduzione in Cina del pensiero liberale europeo e nel contempo il processo che nel giro di due anni avrebbe portato alla fondazione a Shanghai del Partito Comunista Cinese (1921). Pertanto possiamo dire che il Movimento del Quattro Maggio, nato dalle proteste studentesche contro le decisioni prese a Versailles dai Quattro Grandi, segna l'introduzione in Cina di due delle tre grandi correnti di pensiero politico dell'Occidente: il Liberalismo e il Socialismo, mentre il Nazionalismo era stato già introdotto da Sun Yat-sen alla fine dell'Ottocento in funzione anti-imperiale (contro la dinastia mancese dei Qing) e anti-colonialista (contro le potenze imperialiste europee).

Tornando all'Europa, al di là delle tensioni e delle proteste che caratterizzarono l'immediato dopoguerra, una delle condizioni che rendeva ancor più difficile il già complicato processo negoziale era il totale disaccordo tra i Quattro Grandi sugli obiettivi da raggiungere.

• Tutti volevano punire la Germania, seppure con modalità e in misura diverse.
• Chi pensava che i paesi vincitori dovessero essere ricompensati. Era il caso dell'Italia, peraltro frustrata anche dall'imperizia diplomatica della nostra delegazione).
• Chi voleva “azzoppare” la Germania per impedire che scatenasse una nuova Guerra. Era il caso della Francia: sindrome aggiornata del furor teutonicus, con riferimento alla folle e spietata furia in battaglia della tribù germanica dei teutoni. Sindrome più recentemente riaffiorata nella nota dichiarazione di Giulio Andreotti fatta in occasione della riunificazione della Germania dopo la caduta del Muro di Berlino: “Io amo la Germania, ma ne vorrei tre.”
• Chi, infine, sognava una pace giusta e duratura: Wilson, vox clamantis in deserto.


Le difficoltà dei Quattro Grandi erano accresciute dal fatto che la Grande Guerra aveva segnato uno spartiacque tra la vecchia e la nuova diplomazia, la quale non era più segreta e, soprattutto, doveva tener conto dell'opinione pubblica che con l'affermarsi della borghesia aveva un ruolo crescente nel palcoscenico della politica internazionale, e non sempre positivo. Nel 1919, l'opinione pubblica europea in genere fremeva per la punizione della Germania, e non per la pacificazione (Ruth Henig, Versailles and after, 1919-1933, New York, 1995). È appena il caso di rilevare che questa era una grossa complicazione che ovviamente i Mazzarino, i Metternich e i Taillerand non avevano avuto.

Si aggiunga che, a causa di teorie militari allora dominanti come “il culto dell’attacco” o “l'offensiva ad oltranza” adottata dall'esercito francese all'inizio del XX secolo, la tensione dei politici e degli studiosi era verso la guerra e non la pace. Solo di recente gli studiosi si sono messi a studiare seriamente le tecniche di come gestire i negoziati post-bellici, come “vincere” anche la vittoria, cioè la pace. Con scarsi risultati invero, se pensiamo agli esiti della guerra contro i talebani in Afghanistan del 2001, che dati da Washington per spacciati già diciotto anni fa, ora - febbraio 2019 - controllano gran parte del paese e stanno negoziando con funzionari statunitensi una bozza di pace che prevede il ritiro delle truppe internazionali dall'Afghanistan ponendo così fine al conflitto più lungo combattuto da Washington. Né miglior sorte hanno avuto gli esiti della guerra contro Saddam Hussein in Iraq del 2003, voluta fortemente dal Presidente G.W. Bush nonostante la dura opposizione dell'opinione pubblica mondiale. Fu una guerra brevissima ma con un dopoguerra tremendamente lungo, che di fatto ha fornito il terreno di coltura dell'estremismo Islamico e, segnatamente, della nascita dello Stato Islamico.

La risposta più ovvia, ma nient’affatto scontata, al quesito di come gestire la vittoria è rimuovere la cause profonde (strutturali) che hanno provocato il conflitto. E questo implica – segnatamente in una fase di profondi mutamenti come è quella in cui noi viviamo - la “creazione di un nuovo ordine” e, quindi, l'azione di negoziatori (politici e diplomatici) pre-attivi, cioè in grado di elaborare “prospettive” utili per poter prefigurare il futuro. In siffatto processo, bisogna avere il coraggio e la sapienza di operare sul rischioso orlo del caos, come definito nella teoria della complessità, cioè cercando di combinare ordine e disordine, continuità e discontinuità. Esemplificando, si tratta di combinare appropriatamente da una parte le istituzioni già disponibili, che per definizione sono lente a mutare, perché basate sulle antiche usanze e che agiscono da fattore di conservazione, e dall'altra le nuove funzioni, vale a dire i nuovi bisogni prodotti dei mutamenti e dalle nuove conoscenze, che costituiscono il fattore dinamico del divenire storico. Come sappiamo, questo non fu il caso nel 1919.

Negli ultimi decenni, uno de principali temi di ricerca nel campo delle Relazioni Internazionali è stato proprio "Conflict resolution", che riguarda specificamente i metodi e i processi relativi alla soluzione pacifica di un conflitto in senso lato, cioè di un qualsiasi processo negoziale che per definizione implica elementi conflittuali. In tale processo, in ogni caso è essenziale ridurre l'assertività dei negoziatori e accrescere la cooperazione in modo da favorire il compromesso. Purtroppo, cento anni fa questo a Versailles non avvenne – e secondo non pochi storici non poteva avvenire non tanto per la diversità degli obiettivi (tutto sommato comprensibili in una negoziazione tra più parti), ma soprattutto per la contrapposizione degli approcci delle parti negoziali, e per la personalità, per gli atteggiamenti mentali e, in definitiva, per le stesse scarse capacità negoziali dei BIG FOUR, peraltro incapaci di prospettare scenari che concretramente mediassero tra continuità e discontinuità. (Mazzei, Relazioni Internazionali, 2016).

Allora, come gestire la vittoria? La storia ci offre varie risposte a questo problema, che possiamo riassumere in tre modelli, che in pratica riflettono i principali approcci negoziali.

MODELLI DI GESTIONE DELLA VITTORIA

1) Cercheremo di soggiogare il nemico già sconfitto?
-Approccio duro win-lose
Esempio storico: Cartagine (146 a.C.)

2) Cerchiamo di collaborare per ottenere guadagni reciproci?
-Approccio condizionato tit-fot-tat: collaboro se anche tu collabori
Esempio storico: Congresso di Vienna (1815)

3) Perdoniamo e dimentichiamo?
-Approccio negoziale fortemente cooperativo
Esempio storico: USA-Giappone nel 1945

La pace cartaginese e il caso Versailles

La pace instaurata con questo trattato fu realmente una “pace cartaginese”? Come abbiamo visto, il dibattito fu innescato da Keynes, la cui interpretazione fu poi rafforzata da altri celebri studiosi, primo fra tutti Max Weber, e poi tramandata fino a oggi da storici come Eric Hobsbawm e politologi come Henry Kissinger.
In Italia, Luigi Einaudi, da poco nominato senatore del Regno, pubblicò sul Corriere della Sera del 15 febbraio 1920 un articolo dal titolo Come si giunse al Trattato di Versalles, in cui ripropose, condividendola, la spietata analisi del economista britannico. Riportando le feroci riflessioni di Keynes, opportunamente Einaudi puntualizzava che l'autore di queste accuse non era un tedesco che meditava sulle terribili sorti della sua patria; non era un italiano che attribuiva all'impuntatura di Wilson le difficoltà di Fiume; non era nemmeno un socialista che condannasse il trattato di Versailles come il frutto di egoismi imperialistici e capitalistici: era semplicemente “un inglese persuaso dell'impossibilità che il trattato potesse essere applicato”.

Dal punto di vista politologico, penetrante è l'analisi fatta recentemente da Kissinger nel suo ultimo lavoro (L'ordine mondiale, 2015), che rivela la felice combinazione delle profonde capacità analitiche del grande studioso di Relazioni Internazionali con le abilità del consumato diplomatico, il quale insieme a Zhou Enlai, a mio parere, è uno dei maggiori negoziatori del XX secolo. Kissinger, che come è noto è un realista e come tale vede nel balance of power la più efficace strategia per garantire la stabilità del Sistema Internazionale e quindi la pace, fa un paragone tra da una parte il Congresso di Vienna del 1814-15 che, nel ristrutturare l'Europa dopo le guerre napoleoniche, cercò di ristabilire l'equilibrio tra le potenze europee creando un nuovo ordine multipolare, e dall'altra il Trattato di Versailles del 1919, che invece creò un sistema internazionale che possiamo definire fortemente “sbilanciato” e quindi pericolosamente instabile.

In pratica, quest’ultimo mirava a soffocare le pretese revisionistiche della Germania e nello stesso tempo, sullo sfondo della visione idealistica wilsoniana, ad accogliere le illusioni nazionalistiche dei popoli liberati dal crollo degli imperi continentali. Per limitarci all'Europa, afferma Kissinger, il risultato fu la creazione di stati deboli a Oriente della Germania facilitando così lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, che poi altro non fu che il prosieguo della prima. Va aggiunto, a mio parere, che il diverso risultato dei due negoziati fu anche dato dal fatto che nel Congresso di Vienna la Francia (che allora era sotto accusa) era rappresentata da un certo Taillerand, detto “lo stregone della diplomazia”, che con Metternich fu il "regista" di quel Congresso, mentre a Versailles la Germania non aveva alcuna voce in capitolo.

Quindi, non solo personalità, umori, capacità e approcci negoziali, ma anche le condizioni oggettive erano del tutto diverse a Vienna e a Parigi. Come annota Stefano Mannoni (Da Vienna a Monaco 1914-1938 - Ordine giuridico e relazioni internazionali, 2014), “anche se lo si avesse voluto, a Versailles il modello del 1814 non era riproducibile: erano due realtà veramente incomparabili, ancor più di questo incideva il diverso spirito con cui i diplomatici si accingevano ad affrontare il negoziato”. E secondo Ruth Henig (Versailles and after - 1919-1933, 1995), verosimilmente “neanche un trattato più blando avrebbe potuto soddisfare i tedeschi trattenuti da una resistenza psicologica insormontabile ad ammettere la sconfitta” ed accettare un trattato che era stato rigettato fin dall'inizio sul piano emotivo prima ancora che nel merito.

In definitiva, non si può addossare la responsabilità del fallimento della pace ai soli Big Four: v'erano cause ben più profonde. Come ci ha insegnato Kenneth Waltz, padre del neorealismo, per meglio realizzare la pace è importante conoscere le cause della guerra che egli colloca in tre distinti livelli: nella natura dell'uomo (segnatamente i responsabili delle grandi decisioni politiche: nel nostro caso i quattro negoziatori); nello stato e nella società (dando preminenza a fattori interni di natura politica, economica, sociale, culturale); infine, nella struttura del Sistema Internazionale, che è data da come il potere è distribuito tra le grandi potenze, che agiscono in condizioni di “anarchia internazionale” non essendoci autorità al di sopra di essi. Per Waltz tutti e tre i livelli sono importanti: ma mentre il primo e il secondo rappresentano le "cause efficienti" della guerra, poiché il motore che causa i conflitti sono in definitiva i comportamenti dei Capi di Stato e degli Stati nel loro insieme, il terzo livello rappresenta la "causa permissiva" della guerra. (K. Waltz, L’uomo, lo Stato e la Guerra, 1959). Purtroppo le analisi del Trattato di Versailles, a cominciare dal saggio di Keynes, hanno in genere privilegiato i primi due livelli, molto spesso ignorando le trasformazioni avvenute a livello sistemico.

In effetti, la struttura multipolare del Sistema Internazionale creato con il Congresso di Vienna, basato sul balance of power tra le grandi potenze europee, già alla fine del XIX secolo non funzionava più, e per varie ragioni oltre che per l’avvenuta unificazione dell’Italia e della Germania. In effetti il Sistema Internazionale da europeo si era trasformato realmente in internazionale con l'ingresso trionfale nel proscenio della politica mondiale di due potenze extra-europee, gli Stati Uniti e il Giappone. Inoltre, il centro del power aveva ormai attraversato l’Atlantico “transitando” da Londra a Washington, che peraltro dopo la Grande Guerra ritornò al suo tradizionale isolazionismo privando il Sistema Internazionale di un nuovo balancer, di un regolatore dell'equilibrio di potenza. Secondo i realisti, un conflitto “costruttivo” avrebbe potuto produrre un nuovo ordine e quindi stabilità. Tuttavia, una nuova struttura del sistema internazionale sotto forma di bipolarismo fu realizzato solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, che per mezzo secolo ha garantito la pace ma solo nelle regioni poste sotto l’ombrello delle due Superpotenze (segnatanente Europa e Giappone).


Da questa angolazione, in futuro le due guerre mondiali saranno viste unitariamente, come una sola lunga guerra con un armistizio di vent’anni: la Seconda Guerra Europea dei Trent'anni (1914-1945). Del resto, Ferdinand Foch, ufficiale francese assertore della nuova teoria bellica dell'offensiva ad oltranza e comandante in capo di tutti gli eserciti alleati sul fronte occidentale durante la vittoriosa fase della guerra che portò alla resa della Germania, appena qualche anno dopo il Trattato di Versailles commentandone i risultati sentenziava: “Questa non è una pace, è un armistizio per vent'anni”.
In conclusione, in relazione all'aspetto destruens del Trattato, esplicita e lucida appare la profezia fatta da Keynes nella fase conclusiva del saggio con cui abbiamo iniziato le nostre riflessioni: “Se mireremo deliberatamente a impoverire l'Europa centrale, la vendetta – oso predire – non si farà attendere.” In realtà, quella di Keynes più che una profezia era una previsione basata su un'analisi empirica e logica, seppur non sistemica essendo essenzialmente di primo livello di analisi (in cui la responsabilità dei decisori è vivisezionata con grande intelligenza psicologica) e di secondo livello (relativo a suo settore specifico di studio, le conseguenze economiche di tali decisioni).



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In occasione del centenario del Trattato, dobbiamo meditare seriamente su questa profezia-previsione, al di là della valutazione di merito, se si vuol evitare un'analoga o ancor più devastante tragedia nel mondo di oggi, che non è solo multipolare ma anche multicentrico come lo era qualche secolo fa prima che l'Europa - allora al centro del mondo per potenza, ricchezza e scienza – lo unificasse sotto la sua egemonia. Quel che va sottolineato con forza e con preoccupazione è che il mondo di oggi presenta una complessità del tutto nuova, giacché per la prima volta nella storia esso è frammentato e dilaniato al suo interno dalla geocultura ma nello stesso tempo economicamente stretto come nella camicia di forza dalla globalizzazione, e per di più senza una governance di una qualche efficacia. Pertanto, è importante che i politici nelle loro decisioni e gli studiosi nelle loro analisi superino il livello della mera previsione, cercando invece di elaborare prospettive, cioè scenari possibili in modo da non essere passivi spettatori, o peggio vittime della grande metamorfosi in atto.