Se il virus rafforza la Cina

di Michelangelo Cocco pubblicato il 12/03/20

La Cina è riuscita ad arginare e si avvia a sconfiggere il nuovo coronavirus che, partendo dalla metropoli di Wuhan, si era diffuso nella provincia dello Hubei, tra una popolazione di 60 milioni di persone, in un’area del Paese densamente popolata e ancora in parte arretrata. Una grande impresa, resa possibile - secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) – «dallo sforzo di contenimento di una malattia più ambizioso, flessibile e aggressivo della storia».

Un risultato che gli ambasciatori e i media cinesi nel mondo stanno già propagandando come una vittoria del “socialismo con caratteristiche cinesi” nella sua ultima declinazione, quella della “Nuova era” proclamata dal presidente Xi Jinping che ha lanciato la sfida all’egemonia globale degli Stati Uniti.

Il paese dal quale è partito il contagio adesso segue le ripercussioni della sua espansione in Europa e negli Stati Uniti, dove un “Covid-19” fuori controllo non solo pregiudicherebbe la rielezione di Trump, ma potrebbe – come la crisi finanziaria del 2008 – accelerare l'inseguimento della seconda economia del pianeta al primato americano.

E, mentre la possibilità di una recessione globale si fa sempre più concreta, Pechino invia esperti e attrezzature ai paesi più colpiti, tra i quali l’Italia che l’anno scorso è diventata l’unico membro del G7 ad appoggiare ufficialmente la Belt and Road Initiative, l’Iran che della stessa Bri costituisce un importante snodo logistico, l’Iraq il cui petrolio è controllato in buona parte da compagnie cinesi, la Corea del sud e il Giappone che rappresentano pedine da muovere nel tentativo di cacciare gli americani dall’Asia orientale...

Perché l'Italia non può fare come Wuhan

In Italia negli ultimi giorni si parla molto del “modello Wuhan” come di un taumaturgico piano d’azione contro il “Covid-19”, che politici e commentatori vorrebbero importare nel Belpaese. Come? Non lo sanno nemmeno loro, per il semplice motivo che ignorano il “modello” a cui pretendono di ispirarsi. Eppure per chiarirsi le idee, prima di invocare soluzioni impraticabili qui da noi, sarebbe bastato dare una scorsa al resoconto della missione dell’Oms nella Repubblica popolare, che sottolinea che «la maggior parte della comunità internazionale non è pronta - per mentalità e materialmente – ad applicare le misure impiegate in Cina per contenere il “Covid-19”. […] Per queste misure sono fondamentali una sorveglianza estremamente energica per scoprire immediatamente i casi, la diagnosi molto rapida e l’immediato isolamento dei casi, tracciare rigorosamente e mettere in quarantena i contatti più vicini, e un livello eccezionalmente alto di comprensione e accettazione di queste misure da parte della popolazione».


Sono tre i fattori principali che hanno reso possibile la rapida e rigorosa applicazione di suddette misure nel paese più popoloso del mondo, il quinto per estensione: una forte regia politica centrale; un apparato di controllo dei cittadini iper-tecnologico, ubiquo; la resilienza di un popolo letteralmente straordinario (non ne esiste un altro che, tra la metà dell’Ottocento e i giorni nostri, abbia affrontato tanti sconvolgimenti epocali come quello cinese).


Proviamo a ripercorrere le principali misure messe in atto da Pechino durante questa crisi.
Dopo le incertezze e le omissioni iniziali da parte delle autorità locali, il presidente cinese, Xi Jinping, ha dichiarato “guerra” al Covid-19, e minacciato pubblicamente punizioni esemplari contro chi (funzionari e cittadini) non si fosse attenuto alle nuove disposizioni. In seguito alla notifica all’Oms – il 3 gennaio scorso – della trasmissione del virus tra le persone, è stato istituito un “Comitato governativo per il contrasto dell’epidemia”, il cervello politico delle operazioni, la cui guida è stata affidata al premier Li Keqiang.
In tempi record sono stati costruiti ex novo due ospedali prefabbricati con migliaia di posti letto per assistere i malati gravi, mentre impianti sportivi e strutture fieristiche venivano riconvertite a ricoveri per quelli con sintomi lievi e per i casi sospetti da tenere in isolamento.
A partire dal 23 gennaio scorso, la popolazione dello Hubei è stata segregata in casa, in quarantena obbligatoria, controllata in ogni quartiere da decine di migliaia di funzionari del Partito. Sono state formate 1.800 squadre (di cinque o più membri) col compito di rintracciare i contatti dei casi confermati, grazie all’aiuto di big data e intelligenza artificiale. Le persone autorizzate a uscire di casa (un membro per famiglia, solo per fare la spesa e/o recarsi in farmacia, previo controllo della temperatura) potevano farlo solo a condizione d’indossare la mascherina. WeChat e AliPay (due tra le app più utilizzate nel Paese) hanno partecipato alla schedatura elettronica della popolazione per grado di sanità (verde, giallo, rosso), permettendo alla polizia il controllo agli ingressi delle stazioni e ai checkpoint mediante i segnali mandati dagli smartphone.


Tutto ciò – sostiene il rapporto dell’Oms – «è stato possibile solo grazie al grande impegno del popolo cinese per un’azione collettiva contro una minaccia comune».
Tutto ciò è impensabile in Italia, dove il segretario del Pd Zingaretti il 27 febbraio scorso presenziava a Milano a un aperitivo democratico con i giovani del suo partito per «dare dei segnali di ripresa e di speranza»; dove il decreto con il quale il Presidente del Consiglio aveva istituito una “zona rossa” in Lombardia veniva annunciato due giorni prima della sua entrata in vigore, inducendo migliaia di precari e studenti meridionali a rinetrare dal Nord verso il Sud, con gravi rischi di espansione del contagio; dove partiti, parti sociali e media lanciano all’opinione pubblica segnali contrastanti sulla reale pericolosità del virus e sui comportamenti da adottare.


Dunque se è vero – come afferma l’Oms – che le misure applicate dalla Cina sono le uniche che si dimostrano efficaci per contenere rapidamente il virus, è chiaro che un sistema come il nostro non è in grado di sostenerle.
Non resta che ammetterlo, senza alcun compiacimento: il sistema autoritario cinese - in emergenze come quella del nuovo coronavirus – si dimostra “superiore”, proprio come lo dipinge la propaganda cinese.

E la ragione è strutturale. Infatti nemmeno uno dei tre succitati fattori è riscontrabile in Italia, guidata da uno tra i più fragili dei tradizionalmente deboli governi di coalizione repubblicani; dove lo stato da sempre è poco presente su almeno 1/3 del territorio nazionale (il Sud); e al cui popolo sarebbe illusorio chiedere una prova di civismo e solidarietà dopo che, a partire dagli anni Ottanta, è stato allevato al culto dell’individualismo e del consumismo.
Rebus sic stantibus, ne usciremo grazie un sistema sanitario ancora discreto (al centro-nord), alla buona volontà di tante persone che si rimboccheranno le maniche per supere le attuali difficoltà nonostante i politici, e al passare del tempo, che renderà sempre meno pericoloso il virus.

Tra spesa in deficit e opportunità strategiche

Nel frattempo, ogni governo cercherà di cogliere le opportunità che gli si presenteranno durante questa crisi. Se quello italiano punta al via libera dell’Unione europea per un significativo sforamento del deficit che gli permetterà finalmente di rilanciare la spesa, quello cinese ha una visione più strategica, che riguarda il suo “soft power”, ovvero il miglioramento della percezione internazionale del suo governo, danneggiata negli ultimi tempi dalle manifestazioni di protesta ad Hong Kong, dalle rivelazioni sui campi di rieducazione politica per musulmani nella regione del Xinjiang e dalle accuse statunitensi di “spionaggio” contro le sue corporation high tech.

Con la sua visita a Wuhan dell’altro ieri Xi Jinping ha mandato al mondo il messaggio che il sistema cinese è estremamente efficiente. «Ai paesi emergenti ha voluto dire che vale la pena apprendere o utilizzare come riferimento l’esperienza cinese, se non il suo modello di governo», sostiene il professor Shi Yinhong, docente di Relazioni internazionali dell’Università del popolo di Pechino e consigliere governativo.


Emblematico il caso mascherine, che non si trovano nei paesi occidentali, che non le producono più. La Cina è passata in poche settimane da 20 milioni (prima dell’esplosione del “Covid-19”), agli attuali 116 milioni di pezzi al giorno al giorno, grazie a una mobilitazione da tempo di guerra. Incentivi pubblici, sgravi fiscali, prestiti a tasso zero... così il governo ha convinto 2.500 aziende di ogni tipo e dimensione (persino Foxconn e Oppo, entrambe specializzate in elettronica) e ad aprire linee di produzione di mascherine e strumenti di protezione anti-coronavirus.


E proprio il carico cinese di mascherine in arrivo in Italia dimostra - secondo il direttore del China Strategy Initiative dello statunitense Brookings Institute, Rush Doshi – che «la Cina sta emergendo come fornitore globale di beni pubblici, mentre gli Stati Uniti sono incapaci oppure non vogliono farlo».


Michelangelo Cocco è analista politico e direttore esecutivo del Centro Studi sulla Cina Contemporanea