L'interesse nazionale sulla Via della Seta

di Alberto Bradanini pubblicato il 16/02/19

I paesi sovrani (che i finti europeisti chiamano sovranisti o populisti) combattono una quotidiana battaglia sulla scena internazionale a tutela dei propri legittimi interessi. Si tratta di una battaglia che si misura in termini di credibilità politico-economica oltre che, beninteso, alla luce delle alleanze di cui si fa parte, nel caso dell’Italia – lasciando da parte le Nazioni Unite o l’Organizzazione Mondiale del Commercio, dove il suo peso è minimo e mediato dall’Ue - essenzialmente la Nato poiché, secondo i Trattati istitutivi dell’Unione Europea, la politica estera rimane competenza esclusiva dei paesi membri. Ed è singolare in proposito la scelta delle (ex-) Grandi Potenze europee di lasciare la politica estera ai paesi membri, mentre allo stesso tempo quelle medesime (ex-) Grandi Potenze sventolano strumentalmente la bandiera di un vuoto europeismo che sta da anni frantumando le classi medie del continente, moltiplicando poveri e disoccupati.


D’altro canto, anche in seno a un’alleanza impegnativa come la Nato, e senza entrare nel merito della sua odierna giustificazione esistenziale (solo gli sprovveduti o gli assoldati possono ritenere che Putin costituisca davvero una minaccia per l’Europa), rimangono ampi spazi di manovra, che altri paesi membri dell’Alleanza riescono a sfruttare a vantaggio dei loro interessi. In Italia invece, dove pure negli ultimi decenni il colore dei governi è cambiato spesso, destra, centro-sinistra, tecnici, sinistra e ora la coalizione giallo-bruna, la subordinazione della classe dirigente e mediatica al grande fratello americano è stata sempre pressoché totale. Occorre risalire alla crisi di Sigonella, e allo straordinario coraggio di Bettino Craxi di far circondare dai nostri Carabinieri gli incursori americani della Delta Force che intendevano mettere le mani con la forza sui dirottatori dell’Achille Lauro violando la Costituzione di un Paese alleato, per trovare nella storia un gesto di genuina tutela della nostra sovranità. Un gesto del genere sarebbe oggi inimmaginabile alla luce del masochismo della politica estera italiana (si pensi solo alla guerra alla Libia, che ha spalancato la porta a un’immigrazione africana fuori controllo), oltre all’umiliante arrendevolezza davanti alla Commissione su miseri decimali di deficit, quando i milioni di disoccupati italiani giustificherebbero ben altri livelli di deficit per far crescere l’economia. Ma stiamo andando fuori tema.


Un conto è dunque la lealtà, con pari dignità, nei riguardi dei nostri alleati, altro conto è la pigra accettazione di un ruolo gregario, senza alcun margine di autonoma valutazione, al servizio di interessi altrui, politici o economici.
Venendo alla Cina, il governo italiano – secondo quanto è dato sapere – non avrebbe ancora maturato la decisione se firmare o meno un Memorandum d’intesa (MdI) con Pechino sulla Belt and Road Initiative (Bri, o Nuova via della Seta), che come ormai tutti sanno rappresenta lo strumento con cui Pechino intende ridurre le distanze tra Cina ed Europa, e allo stesso tempo riqualificare il peso del Beijing Consensus nel sistema economico internazionale.

L'ok alla Bri non viola i trattati Nato né Ue


L’eventuale firma di tale MdI non costituirebbe dunque una violazione degli impegni o dello spirito dell’Alleanza atlantica, dal momento che non si tratta certo di sottoscrivere un’alleanza militare con Pechino, mentre solo la nota bulimia imperiale americana impedisce di considerare la Bri come uno spazio aperto, dove a determinate condizioni vi sarebbe spazio per gli stessi interessi americani, così come per quelli di economie come quella italiana, alle prese con una drammatica deindustrializzazione.
Quanto alla cosiddetta Unione Europea (quando non si può avere la cosa, dicono i filosofi, si ha il nome), l’eventuale firma del Memorandum italo-cinese non figurerebbe come un’infrazione di una (inesistente) policy comune, non solo perché la politica estera è esclusa dal campo di applicazione dei Trattati, ma anche perché tre paesi membri, Portogallo, Ungheria e Grecia, hanno già firmato analoghe intese, senza che nessuno si sia stracciato le vesti.


Per di più, un eventuale Memorandum d’intesa tra Roma e Pechino avrebbe una valenza esclusivamente formale, trattandosi di un documento privo di impegni cogenti. Esso certo rappresenterebbe per la Cina un risultato di rilievo politico – sebbene gli spazi esegetici di tale aggettivazione siano sempre discutibili - poiché l’Italia sarebbe il primo paese G7 ad aderire all’iniziativa. D’altro canto, chi potrebbe indicare qualche significativo beneficio raccolto dall’Italia per la sua appartenenza a tale augusto consesso?
Tuttavia, se quel Memorandum costituisse la premessa per una concreta partecipazione italiana a qualificati progetti infrastrutturali per le nostre imprese, allora la sua firma assumerebbe un altro significato. Va detto che per raccogliere risultati concreti, il sistema Italia dovrebbe lavorare sodo. Le imprese italiane del settore infrastrutture dovrebbero essere accompagnate da qualche coraggiosa banca italiana e mostrarsi capaci di avanzare offerte tecnologicamente ed economicamente viabili, considerando altresì il rischio che le migliori opportunità siano sfruttate da altri, cinesi o nord-europei, notoriamente più agguerriti, attrezzati e meglio sostenuti dai rispettivi governi.

Per il momento, non è noto se l’Italia abbia sottoposto progetti concreti alle controparti (cinesi e/o dei paesi intermedi). Tra una miope competizione campanilistica tra i diversi porti e la scarsa lungimiranza delle istanze centrali, il sistema Italia non ha ancora identificato un porto italiano su cui attrarre un sostanzioso investimento cinese, per servire i traffici verso l’Est-Europa, mentre gli investimenti della Cosco al Pireo e in altri porti del Mediterraneo fanno sorgere il dubbio che per gli operatori cinesi il mercato europeo sia in via di esaurimento, tenendo anche conto che l’Europa è un continente che cresce poco e dunque con un limitato potenziale di ulteriore assorbimento di prodotti provenienti dall’Estremo Oriente. Si vedrà.
Pertanto, sulla possibile firma del citato Memorandum, a poco più di un mese dalla visita in Italia del Presidente cinese Xi Jinping (22-24 marzo), il governo italiano si trova schiacciato tra l’incudine americana, dalla forte presa tentacolare, e il martello franco-tedesco, da cui dipende la nostra politica fiscale.


Se le pressioni americane sono dovute allo status imperiale della Potenza atlantica, i paesi del Direttorio europeo – Germania (con i suoi satelliti) e Francia – si esprimono invece con due diversi linguaggi, uno di forma e uno di sostanza. Formalmente si oppongono alla firma di un Memorandum per non irritare il grande fratello americano, mentre di soppiatto promuovono in ogni modo i loro interessi. Alla loro silenziosa partecipazione a tutti i progetti Bri, si aggiunge il forte attivismo tedesco e francese in seno all’Aiib, la banca per gli investimenti infrastrutturali promossa da Pechino alcuni anni orsono, cui ha aderito a suo tempo anche l’Italia, la quale però non sembra aver mietuto sinora grandi risultati.


Va poi considerato che il commercio Italia-Cina genera un avanzo annuale per Pechino di oltre 20 miliardi di euro su un interscambio di 43/45 miliardi. E la Cina non dà segnali di voler lavorare alla riduzione graduale di tale avanzo, favorendo ad esempio una maggior apertura del suo mercato. Tenendo conto che le competenze di politica commerciale sono state cedute dai paesi membri alla Commissione Ue, e poiché anche l’Unione Europea nel suo complesso registra un pesante disavanzo commerciale con la Cina di oltre 175 miliardi di dollari all’anno, ci si aspetterebbe una politica rivendicativa da parte della Commissione a tutela dei paesi deficitari. Invece niente di tutto ciò, e la ragione è quanto mai evidente: la Germania, unico paese Ue a godere di un avanzo commerciale con Pechino (a parte le irrilevanti Irlanda e Finlandia), non ha alcun interesse a sollevare la questione, ed è noto che la Commissione e in generale la tecnocrazia europea sono saldamente controllate dai tedeschi. Cosa aspettano dunque i paesi danneggiati, Italia inclusa, a far sentire la loro voce a Bruxelles (o a Berlino, per chi ne avrà il coraggio)?

Dialogo politico per stare nella via della Seta


Negli ultimi mesi l’Unione Europea – dunque, Germana e Francia, che in Europa, fuori di ogni finzione, decidono per tutti – sarebbe stata folgorata su una diversa Via della Seta, questa volta targata Europa, non più Cina. Il 15 ottobre 2018 infatti, i ministri degli Esteri dei 28 paesi hanno approvato la Euro-Asian connectivity strategy, presentata illustrata al XII Annual Intergovernmental Asia-Europe Meeting di Bruxelles. Si tratta di un’iniziativa che intende porsi come alternativa europea alla creazione di infrastrutture di connettività tra la Cina e il nostro Continente, attraverso investimenti infrastrutturali in Asia, con un focus su trasporti ed energia, e finanziamenti per oltre 60 miliardi di euro. Tali fondi, che in quanto europei sono anche italiani, dovrebbero essere accessibili a parità di condizioni anche dalle nostre imprese: speriamo bene! Rimane però legittimo il timore che, se le attuali condizioni di soggezione politica nei riguardi delle istanze Ue dovessero perdurare e se nel frattempo il sistema Italia non avrà guadagnato efficienza e capacità operativa, è facile prevedere che quando sarà il momento di fare il bilancio sui progetti Bri, l’Italia si ritroverà tra le mani, ancora una volta, solo un pugno di mosche.


Qualcuno denuncia che le procedure seguite dalle diverse istanze cinesi sui progetti Bri sono oscure e faziose. È certamente possibile, ma la risposta da dare dovrebbe venire da una maggior partecipazione, chiedendo trasparenza e smascherando i responsabili, non la fuga verso l’Aventino. Inoltre, se l’esposizione ai prestiti cinesi espone alcuni paesi ad un eccesso di dipendenza, le nazioni occidentali potrebbero compensare con loro prestiti, come suggeriscono logica e regole del capitalismo internazionale che l’Occidente ha inventato e Pechino ha imparato a sfruttare a suo vantaggio. Si tratta di trovare un bilanciamento, invitando al banchetto, sperando che si tratti davvero di un banchetto, anche i paesi direttamente interessati.


Nell’insieme, la strategia cinese della Bri pone problemi che andrebbero affrontati in un dialogo politico e bilanciato tra le nazioni coinvolte, in particolare quelle intermedie tra Cina ed Europa. L’obiettivo dovrebbe essere centrato sulla crescita delle economie della regione euroasiatica, rendendole sostenibili, moderando lo strapotere delle multinazionali, riducendo le dispute politiche e militari tra le nazioni e ripartendo equamente i benefici. Con l’occasione, si potrebbero affrontare anche i temi della sicurezza (Huawei), senza dimenticare in proposito le attività dei nostri alleati americani (Wikileaks e caso Snowden docent), che intercettano allo stesso tempo i nemici, gli amici e i propri cittadini. E sulle industrie del futuro, invece di combattere solo una battaglia interdittiva destinata alla sconfitta, sarebbe interesse dell’Unione Europea (gli Stati Uniti sono in corsa da sempre) far nascere un competitor continentale – e qui siamo nel campo delle chimere – in grado di rappresentare una valida alternativa per i clienti di tali tecnologie, un competitor che fosse espressione di un’industria integrata a livello europeo e che distribuisse equi dividendi economici, industriali e politici a tutte le nazioni Ue, in un settore davvero strategico per il nostro futuro. Di tutto ciò, tuttavia, non si vede l’ombra in un’Europa dominata dal nazionalismo, questo sì sovranista, delle ex-Potenze Europee che, invece di prospettive di crescita e lavoro davvero qualificato, perseguono progetti di dominio politico ed economico miopi e fuori tempo.


Si tratta in buona sostanza di temi da affrontare senza ingenuità, ma anche senza eccesso di riverenza con i nostri stessi alleati, quelli europei che impongono politiche distruttive di ricchezza, e quello americano, ricordando a Washington – è solo un esempio - che prima di cancellare unilateralmente il trattato sui missili intermedi con la Russia, avrebbe potuto chiedere il parere dell’Europa, visto che sarebbe quest’ultima a pagare con la propria sopravvivenza un conflitto di teatro (speriamo ipotetico) tra Stati Uniti e Russia.