La Cina e noi

di Pietro Modiano pubblicato il 04/03/24

Ragionare di Cina è quanto mai necessario, ma è difficile per molti motivi, uno dei quali, permanente, è la scarsa circolazione delle notizie che vengono da quel paese e dai suoi vertici istituzionali. È sempre stato così. Ci sono i sinologi come ci sono gli egittologi, categorie di studiosi entrambe impegnate a decifrare segni difficili da capire.   

Ma  poi c’è una difficoltà più attuale, data da questa polarizzazione da Guerra fredda -  o anche peggio -  in cui siamo  immersi, che scoraggia il pensiero critico e la sua espressione su tutto ciò che riguarda i conflitti, attuali e potenziali, in corso fra Occidente e resto del mondo. È il clima di una quotidiana chiamata alle armi, purtroppo non solo metaforica.  Ne risentono inevitabilmente anche le relazioni con la Cina.  


Sulla Cina non  mancano da noi analisi serie e articolate, anche recenti, e mi riferisco per fare un esempio al libro di Alberto Bradanini, e al lavoro più in generale del CSCC,  ma l’impressione è che siano un po’,  o siano diventate, voci nel deserto. Il  mainstream è unilaterale e più  acritico, tende a essere fortemente anti-cinese, e mi pare molto ben rappresentato dal libro di Federico Rampini - a partire dal titolo, Fermare Pechino -, ma anche più di recente dal libro di uno studioso serio come Maurizio Scarpari, che accredita la tesi di una fonte americana piuttosto estremista, secondo la quale la storia moderna della Cina è una «maratona secolare per rimpiazzare nel mondo l’egemonia americana», ipotizzando una sostanziale coerenza, a questi fini, di Mao, Deng, Xi.  


Tutto sarebbe  inscritto in un disegno di egemonia planetaria, e quindi non vale la pena andare tanto per il sottile nelle analisi, si finisce per dare credito alla loro propaganda, e la Cina comunista è al fondo sempre uguale. Troppo semplice, ma efficace. Pare che questa narrazione, piuttosto diffusa,  risulti convincente, se per esempio fra il 2018 e il 2021 la percentuale di americani che ha una visione negativa della Cina è aumentata del 29 per cento, dal 47 al 76 per cento. Ma non va bene. 

Di sicuro, descrivere la storia cinese dal 1949 come una storia lineare di conquista dell'egemonia globale non ha niente a che fare con la realtà. Kissinger insegna. Ed è chiaro che su linee di ragionamento di questo tipo si finisce per perdere il senso degli eventi, tanto più alla luce delle periodiche svolte radicali a cui la politica cinese ci ha abituati negli ultimi decenni. 

Xi Jinping, una svolta non irreversibile

Basta pensare agli eventi dell'ultimo decennio, dalla vittoria di Xi su Bo Xilai, a Hong Kong, ai cambiamenti costituzionali dell'ultimo congresso. Eventi che segnano certo un irrigidimento delle politiche cinesi nei confronti dell'Occidente e un regresso nel percorso verso la realizzazione piena dello stato di diritto e della separazione dei poteri. Ma sbaglia chi dice che questa è semplicemente l'ultima manifestazione della natura irrimediabilmente autocratica del regime, e che quindi non ci sarebbe niente di nuovo e niente da fare.  

Siamo infatti di fronte, con Xi Jiping, non alla prosecuzione e all'esito di una vecchia linea autoritaria immutabile, ma ad una svolta vera e propria, delle tante a cui abbiamo assistito. Che va vista dunque laicamente come tale, e che come altre svolte non va giudicata irreversibile.  

Fino a pochi anni fa l'itinerario della società e della politica cinese appariva diverso, forse radicalmente diverso.  


Nei dieci anni di Hu e Wen il confronto internazionale si era fatto più disteso, e all'interno, senza esagerare in una visione troppo rosea di quella realtà, si erano create condizioni favorevoli alla circolazione delle idee e a una certa democratizzazione, se non altro del partito. Si parlava di "intra-party democracy" e si sperimentavano innovazioni in quel senso, mentre il limite dei due mandati restava a presidio di un periodico adattamento delle linee strategiche del partito alla realtà che cambia, e alla dialettica interna ai suoi gruppi dirigenti. 


I più ottimisti potevano intravedere addirittura una sequenza virtuosa fra Jiang Zemin e Hu Jintao. Jiang Zemin, con le sue "tre rappresentanze", ammette gli imprenditori, anche quelli grandi, nel partito, e quindi lo trasforma in un'entità che vuole rappresentare tutta la società, e non una sua parte, come con Mao. Hu Jintao  prova, sia pure con molta prudenza e partendo dalla periferia, a democratizzare questo partito onnivoro, con elezioni locali nelle quali il numero di candidati eccede quello degli eleggibili. Andando avanti su questa strada si poteva arrivare a una attenuazione del centralismo e forse, gradualmente, a un qualche riconoscimento delle articolazioni interne al partito, e questo avrebbe potuto rappresentare addirittura una via interessante verso una forma di democrazia, "con caratteristiche cinesi" si potrebbe dire,  senza un pluri-partitismo formale, con un partito unico sì, ma con una democrazia interna sua propria.


   

Un movimento embrionale, che sembra essere stato congelato. Mentre con il vincolo dei due mandati si è rimosso quell'obbligo di ricambio delle classi dirigenti che alimentava almeno ogni due quinquenni una dialettica politica non sempre comprensibile da noi, ma certo non formale. Ma ciò che conta è che molte cose fino a qualche anno fa sembravano muoversi nella direzione giusta. E se questo era vero, mi dico, allora quel cammino può essere ripreso, e forse lo sarà. La Cina ci ha abituato alle svolte.  

Poi, non tutto va nella direzione sbagliata. Per esempio, bisogna riconoscere i passi in avanti compiuti nell'ultimo decennio verso una minor disuguaglianza sociale, piaga del dopo-Deng. La Banca mondiale dà conto di una riduzione dell'indice di Gini da quasi 0,44 nel 2010 a 0,37 nel 2021, che non è poco. 

Fermare la deriva del conflitto

La prospettiva nella quale credo dobbiamo metterci, e mi pare che su questo siamo almeno in questa sede in sintonia, è come favorire le condizioni perché si arresti una deriva conflittuale che non sappiamo dove ci può portare, e si favorisca invece, facendo leva su migliori relazioni internazionali, una nuova e positiva inversione di tendenza in quel paese, e si riapra una nuova fase di progresso interno e apertura.     

Per amor di pace, ovviamente, prima che per amor di Cina. Come lo stesso Kissinger rilevava, la particolare pericolosità del confronto strategico fra Usa e Cina sta  nel fatto che si tratta ormai di un conflitto fra economie comparabili per dimensione e capacità tecnologica, cosa che non era nel caso delle relazioni fra Usa e Unione Sovietica, e non è un bene. 


Durante la guerra fredda non eravamo in pieno nella trappola di Tucidide, di una potenza emergente che si confronta ad armi pari con quella emersa, perché c’era un divario enorme fra Usa e Unione Sovietica in campo economico, il che non aveva peraltro impedito al mondo di trovarsi sull’orlo del baratro. Oggi in quella trappola ci siamo in pieno, la Cina compete con gli Stati Uniti per dimensioni del Pil e tecnologia, e questo aggiunge preoccupazioni legittime sul nostro futuro.   

Detto questo, mi pare chiaro che ci sono buoni motivi per fare ognuno, paesi, governi e uomini di buona volontà, la propria parte allo scopo di ridurre le probabilità di conflitto, e di agire a favore e non contro le possibilità che si riapra una nuova fase di distensione, di  progresso e apertura democratica in Cina. Il clima da scontro frontale è il contrario di quello che serve, rafforza i falchi da ambo le parti.  

Le relazioni Italia-Cina

Due parole sui rapporti Italia-Cina, in questo quadro. Ovviamente bisogna essere realisti quando si ragiona sul ruolo del nostro paese. La relazione presentata da Alberto Bradanini è approfondita e realistica, e ci dice come la nostra parte, il nostro potenziale di influenza, sia diventato ultimamente piuttosto piccolo, e sul piano delle relazioni economiche lo indicano i dati sugli investimenti diretti nelle due direzioni, in calo, e il permanere di squilibri rilevanti nel commercio estero. Tendenze che sembrerebbero ineluttabili, ma che in realtà non lo sono:  Bradanini ci ricorda il  sostanziale equilibrio dell'interscambio sino-tedesco, e la presenza rilevante e non in riduzione dell'industria tedesca in Cina anche in settori ad alta tecnologia.  
 

In Italia soffriamo su questo fronte di un problema strutturale, dato dall'assenza di grandi progetti e iniziative di collaborazione, che è il riflesso della più che nota carenza di grandi imprese globali nel nostro paese. Stellantis si ritira dall'auto elettrica, e conferma la non italianità della sua governance nominando un francese anche a capo delle attività in Cina, concentrate oggi nello sviluppo delle batterie al litio e al sodio. Fincantieri ha acquisito alcuni grandi contratti, che saranno portati a temine ma difficilmente rilanciati alla scadenza, dopo il mancato rinnovo del memorandum sulla Belt and Road Initiative. Leonardo ha poco spazio di manovra. Ed è più o meno tutto.  Sul fronte degli investimenti cinesi, mi pare di rilievo il fatto che dopo l'esercizio del golden power su Pirelli e, prima, su un'altra mezza dozzina di joint ventures, analogo provvedimento non sia stato preso con riferimento alla partecipazione cinese in CDP reti, che investe in Snam e Terna. È qualcosa, ma resta una sostanziale assenza di grandi interessi industriali di tipo strategico, alla quale non è facile trovare alternative. Per questo sono particolarmente meritevoli quelle messe in atto e promosse dalla fondazione Italia-Cina e dal suo Presidente Mario Boselli, che tenta di tenere insieme medi imprenditori italiani e cinesi e mantenere vive le relazioni reciproche. Ma il perimetro dei grandi interessi comuni, condizione per una politica autonoma e base di accordi possibili, non è affatto largo.


Passando alla finanza, non è che si stia meglio: c’è la presenza di Generali, che cresce anche per acquisizioni recenti, ma il cui fatturato nel ramo danni nel 2022 era inferiore ai 170 milioni di euro, su un mercato assicurativo cinese di oltre 350 miliardi. 

Nella finanza c’è anche un accordo di qualche anno fa fra China Development Bank e la nostra  CDP, per dar vita a un fondo congiunto di private equity. È un'iniziativa interessante, sulla quale  aprirei una parentesi, perché sono personalmente testimone di un'analoga occasione perduta, e di una vera perdita di tempo, e mi permetterete di parlarne per fatto, appunto, personale. 

Una lezione

Quando nel 2005 ero direttore generale del San Paolo, non ancora acquisito da Banca Intesa, stringemmo con la stessa China Development Bank ed Exim Bank un accordo  per dar vita a un'iniziativa del tutto analoga a quella odierna di CDP, ma era oltre quindici anni fa. Allora il fondo Mandarin – così si chiamava - non era una delle tante, ma era la prima joint venture finanziaria sino-europea, e rappresentava quindi un precedente importante. Suggellava un rapporto abbastanza speciale fra noi e la Cina, che aveva scelto un'istituzione italiana, e non francese, o tedesca, o inglese,  per creare un precedente nel mondo degli investimenti diretti nell'area delle PMI, dando vita a un esperimento allora unico, e di una certa portata sul piano europeo e forse non solo.


Era, allora, una grande novità e le ambizioni erano rilevanti. Ma non è andata come doveva, Mandarin ha chiuso il suo ciclo di investimenti soddisfacendo gli azionisti ma senza riprodursi e ha chiuso l'attività, e così con l’iniziativa di CDP oltre dieci anni dopo si ricomincia da zero, come se niente fosse già successo, avendo ampiamente perso l'abbrivo degli esordi, e senza più essere un caso speciale. Nel frattempo qualcosa non ha funzionato. 

Sono testimone di ciò che non ha funzionato da parte nostra, con un certo calo di ambizioni dovuto contemporaneamente ai cambi di governo, alla retrocessione del dossier Cina in Intesa san Paolo, dopo la fusione, oltre che alle obiettive difficoltà di trovare imprese e imprenditori, cinesi e italiani, disponibili all'iniziativa. Da parte cinese, abbiamo avuto segnali di interesse soprattutto in settori, quali quello dei pannelli solari, in grado di garantire profitti rapidi con investimenti modesti, ma di basso contenuto per quanto riguarda la crescita delle relazioni bilaterali. "Short-termisti" anche loro. 

Ma resta una lezione, da quella esperienza, che può forse servire per il futuro e per questo l’ho ricordata.


Allora eravamo riusciti a candidare una istituzione italiana a un ruolo particolare nei rapporti economici fra Cina e Occidente non per la forza intrinseca dell'Italia, che non c’era allora e non c’è oggi, ma perché avevamo il governo dietro di noi ed eravamo riusciti a far capire ai nostri interlocutori alcune peculiarità del nostro paese e della nostra economia che avevano suscitato un loro particolare interesse. I cinesi erano colpiti dal nostro itinerario di paese non di primo rango - ha ragione Bradanini - ma capace di trovare una sua propria strada di sviluppo, diversa in parte da quella dei paesi egemoni, soprattutto in due direzioni. In primo luogo la forza delle PMI rispetto a quello dei grandi oligopoli, che da un lato rendeva potenzialmente meno minacciose le nostre iniziative in Cina, ma che appariva anche una via da imitare in un paese alle prese con il rischio di una forte concentrazione del potere economico privato, che già allora, dopo Jiang Zemin, cominciava a delinearsi. Sono testimone dell'interesse del vice presidente delle Scuole di Partito, allora impegnato nella diffusione in Europa degli istituti Confucio, per questa prospettiva. Del resto, il ministro degli esteri cinese di allora in visita negli Stati Uniti decantava le Township Village Enterprises come complemento alle State Owned Enterprises.


E in più interessava il nostro modello di sviluppo urbano, fondato non su megalopoli e slums, ma su città medie prive di periferie ingestibili, che era ciò che i cinesi volevano nella fase, allora in corso, della travolgente uscita dalle campagne. 

C'era materia per capirsi e sperimentare, e dare via a quel tipo di "win win situations" tanto apprezzate dai cinesi. Abbiamo provato a procedere in quella direzione, non solo con il fondo Mandarin e il lavoro sulle PMI, ma cercando anche di inserire le nostre imprese ex municipalizzate nel progetto cinese di costruzione, dal niente, di cento nuove città proprio allo scopo di disciplinare il loro tumultuoso processo di urbanizzazione. Non abbiamo fatto molto, se non qualche buon seminario ad alto livello sull'esperienza italiana di sviluppo urbano e industriale, e una visita di una nostra missione a una città in costruzione a nord di Pechino. 

Lavorare su progetti di questa portata con i dirigenti cinesi non è facile. Anche per questo per andare avanti in queste direzioni sarebbe stata necessaria dal nostro lato una leadership diversa – io stavo facendo la fusione di San Paolo con Intesa – e il coinvolgimento del nostro governo, ma non abbiamo trovato un ministro veramente interessato, abbiamo provato con gli Esteri, l’Industria, anche il Commercio Estero, siamo finiti con il Ministero per il programma. Forse Alberto Bradanini conserva un qualche ricordo di quel tentativo. 


Un'occasione perduta, che sarebbe una delle tante se non ci dicesse qualcosa sui punti di forza o di reciproco interesse che comunque possiamo vantare nei confronti della Cina e abbiamo nell’occasione rinunciato a far valere, che hanno alla base uno sforzo di comprensione reciproca degli interessi dei due paesi, per quanto di dimensioni e peso politico non comparabili, cui non si deve mai rinunciare. 

Il che mette in campo tutto ciò che esiste comunque sul confine fra noi e loro anche al di là di quelli industriali e finanziari, a partire dai rapporti fra le università e le istituzioni culturali. Senza trascurare altri campi di interesse reciproco (per esempio, nella mia esperienza alla Sea ho capito l'importanza dei tour operators cinesi, che da loro sono vere e proprie potenze, e dei rapporti con le loro compagnie aeree, dove manchiamo ahinoi di un vettore nazionale capace di strategie nel lungo raggio). 

La prateria delle relazioni reciproche resta sconfinata, e in mancanza di una massa critica da parte nostra, e di un chiaro indirizzo strategico, intanto sarebbe bello che si creasse una rete stabile di relazioni fra le entità e anche i singoli studiosi che si occupano dei rapporti bilaterali, quali quelle presenti oggi.  

Conclusioni

Nei confronti della Cina dobbiamo esercitare cautela e senso critico, perché temiamo credo tutti quelli che Stephen Roach ha chiamato il rischio della guerra per sbaglio, o meglio del conflitto accidentale, titolo del suo ultimo libro. 

Il  sottotitolo di quel libro è: America, Cina e il conflitto delle false narrative. Roach non è un filo cinese, è un eminente editorialista americano del Financial Times, ma teme una deriva anche dialettica che produca crescenti incomprensioni, della quale nella nostra parte di mondo portiamo anche secondo lui una qualche responsabilità. Lo dicevo all’inizio, insistere su una visione semplificata e unilaterale della Cina non aiuta la comprensione reciproca, rafforza i falchi dalla loro parte, aumenta i rischi di conflitto.  

In Italia non siamo messi particolarmente bene per tornare a un ruolo più attivo, e non è stata d'aiuto la gestione del dossier della Belt and Road Initative, sia nella firma forse precipitosa del memorandum, sia nel  successivo passo indietro, cominciato con il governo Draghi e formalizzato da quello in carica. Ma anche pensando, pur con qualche scetticismo, alla presidenza del G7 che ci spetta, forse il nostro paese può fare di meglio.


Questo testo è la trascrizione dell'intervento di Pietro Modiano durante il confronto "Lo sviluppo della Cina in un mondo che cambia, tra opportunità e de-risking" che si è svolto il 15 febbraio 2024 presso il Politecnico di Milano.