Tra pandemia e rivalità strategica

di Michelangelo Cocco pubblicato il 12/05/20

Mentre gli effetti collaterali della pandemia sconvolgono il pianeta, si inasprisce lo scontro tra Cina e Stati Uniti sull’origine del nuovo coronavirus e sull’attribuzione di eventuali responsabilità per la diffusione del morbo che ha messo in ginocchio il capitalismo globale e ucciso, finora, 286.000 persone.

Invece di esercitare la sua leadership per favorire una cooperazione sanitaria e una risposta internazionale coordinata che avrebbe potuto dare un impulso determinante alla lotta al “Covid-19”, la superpotenza americana ha preferito mettere la sua diretta concorrente sul banco degli imputati, reiterando la terribile (quanto scientificamente infondata) insinuazione sulla creazione dell’agente patogeno in un laboratorio di Wuhan.

Così, in breve tempo, il virus è stato “politicizzato”, non solo dagli Stati Uniti (come sostengono a Pechino).

La Cina infatti, dopo aver messo sotto controllo l’epidemia, attraverso il suo “proto-softpower” ha rivendicato urbi et orbi le efficaci misure di contenimento sperimentate in patria promuovendole come una dimostrazione della “superiorità” del socialismo con caratteristiche cinesi rispetto alle democrazie liberali. Un assalto propagandistico - condotto soprattutto attraverso i social e le ambasciate cinesi - al quale i grandi media internazionali hanno risposto con una controffensiva che ha rilanciato tutte le illazioni della Casa bianca: la Cina ha falsificato il numero delle sue vittime (ufficialmente 4.633), la Cina ha nascosto al mondo la pericolosità del virus, la Cina ha prodotto artificialmente il virus… senza però fornire alcuna prova delle presunte menzogne e malefatte di Pechino.

Tuttavia - a giudicare dalle analisi del pechinese CICIR (il think tank dell’intelligence cinese) e dello statunitense Pew Center – nel pieno della pandemia l’opinione pubblica internazionale ha creduto ai leader occidentali: infatti, secondo le rilevazioni dei due centri studi, l’immagine della Cina negli Stati Uniti e nel mondo è crollata al livello registrato subito dopo la repressione del movimento di piazza Tiananmen nel 1989.

«Rafforzare la deterrenza nucleare»

Gli attacchi alla Cina che arrivano da Washington trovano la loro ragione più immediata nella competizione che porterà – il prossimo 3 novembre – all’elezione del 46° presidente degli Stati Uniti. La Cina è il “nemico” da dare in pasto all’opinione pubblica per “giustificare” gli 81.491 morti negli Stati Uniti, frutto anche della risposta caotica di un sistema dove la sanità pubblica non è un diritto e tantomeno il lavoro, come dimostra l’impennata, in due mesi, della disoccupazione dal 3,5% (il livello più basso negli ultimi 50 anni) al 14,7% (il più alto dalla Grande depressione degli anni Trenta). Costretto a rincorrere nei sondaggi, nei giorni scorsi Trump ha fatto distribuire ai candidati repubblicani al Senato un vademecum di 57 pagine con istruzioni dettagliate sugli argomenti da utilizzare per attaccare la Cina durante i comizi.


Nello stesso tempo il suo sfidante democratico, Joe Biden, ha twittato che «gli Stati Uniti devono difendere la libertà e sostenere il popolo di Hong Kong», dove recentemente è stato arrestato un gruppo di leader dell’opposizione per aver partecipato alle proteste anti-Pechino dei mesi scorsi. Nella corsa verso il prossimo 3 novembre – a differenza di quattro anni fa, quando fu bersagliata da Trump molto più che da Hillary Clinton – la Cina è finita nel mirino di entrambi i candidati alla presidenza.

Secondo Shi Yinhong - consigliere del governo cinese e docente all’Università Renmin di Pechino – le relazioni tra Cina e Stati Uniti «hanno raggiunto il punto più basso dal 1972», quando Nixon incontrò Mao a Pechino per normalizzare i rapporti tra i due paesi e far uscire la Repubblica popolare dall’isolamento internazionale.
La sfiducia e la tensione reciproche sono tali che il popolare direttore del “Global Times” ha invocato il rafforzamento della deterrenza nucleare della Repubblica popolare come lo strumento migliore per prevenire un attacco americano, suscitando centinaia di migliaia di commenti di approvazione online. Mentre negli Stati Uniti si è registrata un’escalation di episodi di razzismo. Centinaia di accademici, esperti di politica estera e di sicurezza che lavorano negli States hanno sottoscritto un appello per «fermare i crimini d’odio contro la comunità di americani di origine asiatica» che negli ultimi mesi ha subìto aggressioni, attacchi con l’acido, tentativi di omicidio.

È ormai evidente che lo scontro in atto tra Washington e Pechino non rappresenta né un effetto collaterale della pandemia, né una polemica che accompagna le presidenziali Usa, e nemmeno il risultato della convergenza di questi due eventi.
Il fatto è che tra la vittoria di Trump dell’8 novembre 2016 e il prossimo Election day ha fatto irruzione il XIX Congresso del Partito comunista cinese (18-24 ottobre 2017), durante il quale il presidente Xi Jinping ha scoperto le carte delle ambizioni della sua “Nuova era”, che mira a trasformare la Cina in una potenza manifatturiera avanzata e in una protagonista della diplomazia internazionale, in ultima istanza ad affiancare gli Stati Uniti nella governance globale.


La Strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America pubblicata nel dicembre 2017 chiarì che era ormai iniziata una “competizione strategica” con la Repubblica popolare, definita una “potenza revisionista” che mira a «modellare un mondo antitetico ai valori e agli interessi degli Stati Uniti», a «rimpiazzarli nella regione Indo-Pacifico», e a «espandere l’influenza del suo modello economico guidato dallo stato e riordinare la Regione a suo favore».
A determinare il tramonto della trentennale collaborazione (tecnologia in cambio di mercati) tra Cina e Stati Uniti e l’avvento della “competizione strategica” tra la seconda e la prima economia del pianeta è stato l’avanzamento tecnologico della Cina - che ora punta a produrre beni e servizi in grado di competere con le corporation dei paesi avanzati, sui mercati cinesi e internazionali – e il tentativo di rafforzamento del suo “socialismo con caratteristiche cinesi”, cioè il sistema politico autoritario imperniato sul Partito comunista cinese che le ha permesso di diventare una concorrente degli Stati Uniti.

La stessa competizione che aveva trovato espressione nella guerra commerciale-tecnologica si è riaffacciata nella pandemia, che annuncia cambiamenti di assetti e scenari internazionali ben più profondi dello scontro sui dazi. Ed è soprattutto in questo contesto di competizione in costante evoluzione (per la quale sembra inappropriata sia la definizione di “nuova Guerra fredda” che quella di “decoupling”) che va inquadrato lo scontro sulla narrazione da dare alla battaglia contro il coronavirus: ha funzionato di più la “guerra popolare” proclamata da Xi Jinping o il tentativo di Trump di processare Pechino? Si è dimostrato più efficace l’autoritarismo cinese o la democrazia liberale statunitense? Le conseguenze economico-sociali della pandemia andranno affrontate con più stato o più mercato?

Come sempre, la storia (quella ufficiale almeno) la scriverà il vincitore, in questo caso chi subirà meno danni, in termini di vite umane, occupazionali, e di sistema produttivo. E il vincitore potrebbe essere proprio quella Cina che, al momento, appare messa all’angolo, se alla crisi di leadership globale palesata da Washington dovesse seguire una lunga crisi economica occupazionale-sociale negli States, mentre la Cina riprenderà – secondo il Fondo monetario internazionale – a crescere del 9,2% nel 2021 (dopo il misero +1,2% previsto per quest’anno).

La diplomazia del "lupo guerriero"

In questo quadro l’Unione europea resta sostanzialmente a guardare, nell’attesa che la presidenza tedesca del Consiglio dell’Ue (dal 1° luglio prossimo) chiarisca come potrà essere ridefinito il rapporto dell’Europa con la Cina nel mondo post-coronavirus, alla luce delle spinte del sistema produttivo teutonico all’interno del nuovo contesto. Mossa dagli interessi economico-commerciali di Berlino e dalla prospettiva di un divario crescente tra le due sponde del Pacifico, l’Unione seguirà gli Stati Uniti, magari con Trump rieletto comandante in capo?

Si sono spente da pochi mesi le fiamme di Hong Kong (dove il fuoco democratico continua a covare sotto la cenere) e la “Nuova era” proclamata da Xi Jinping si trova ad affrontare un’altra crisi, più profonda e gravida di conseguenze di quella nell’ex colonia britannica, per le sue ripercussioni sull’occupazione e – potenzialmente – sulla stabilità sociale all’interno della Cina.

È possibile che la leadership – a livello locale e/o di governo centrale – abbia risposto con lentezza alla diffusione di un virus sconosciuto e ne abbia comunicato l’esistenza con un certo ritardo: due settimane, un mese, un mese e mezzo? Probabilmente non lo sapremo mai: è illusorio attendersi ammissioni di responsabilità da un Partito per il quale una certa “opacità” rappresenta da sempre un asset, che gli permette di decidere senza che i suoi avversari possano “disturbare il manovratore”. Comunque sia, l’onere della prova spetta a chi lancia accuse a Pechino, che respingerà qualsiasi richiesta di inchiesta internazionale indipendente come un attacco alla sua “sovranità territoriale”.

È interessante notare che – come nel caso delle pressioni internazionali a sostegno dei giovani dimostranti di Hong Kong – anche durante la pandemia di “Covid-19” Pechino ha messo in campo una nuova diplomazia assertiva, che sembra configurarsi come un elemento strutturale della “Nuova era”, come del resto previsto nei piani della leadership.
L’hanno ribattezzata diplomazia del “leone guerriero”, dal titolo di un film nazionalista campione d’incassi nella Repubblica popolare. I funzionari cinesi all’estero difendono la linea del Partito quotidianamente, utilizzando tutti i canali disponibili: intervenendo sui media mainstream, attraverso la “diplomazia degli aiuti”, rispondendo colpo su colpo sui social alle accuse del “nemico”. Con quali risultati è troppo presto valutarlo: come abbiamo detto, quello cinese è un “proto-softpower”, con una capacità di influenzare l’opinione pubblica internazionale in fieri, ancora debole, a causa di profonde differenze culturali e di sistema politico col mondo a cui si rivolge, difficilmente superabili.

In conclusione, la pandemia ha accelerato significativamente alcune tendenze in corso (scontro politico-economico tra Pechino e Washington; “disaccoppiamento” dell’economia cinese da quella statunitense; corsa agli armamenti) facendo oscillare il pendolo cooperazione-competizione tra la prima e la seconda economia del pianeta decisamente in direzione della competizione.
La narrazione sulla pandemia ha sottoposto questa competizione a un sovraccarico di tensione, trasformandola in scontro aperto.

E questa competizione ormai strutturale minaccia di aprire presto nuovi fronti di scontro: Taiwan, Hong Kong, la questione uigura...

Michelangelo Cocco è analista politico e direttore esecutivo del Centro Studi sulla Cina Contemporanea