La geopolitica del coronavirus

di Franco Mazzei pubblicato il 29/05/20

1.- Mentre tra incertezze e polemiche l’Italia e altri paesi, sulle orme della Cina, entrano nella cosiddetta Fase 2 dell’emergenza Coronavirus, può essere di qualche interesse riflettere sugli effetti che questa pandemia potrebbe avere sul futuro assetto geopolitico. Si farà particolare riferimento all’Estremo Oriente giacché questa regione - come l’Europa alla vigilia della Grande Guerra – non solo ha la maggiore concentrazione d’interdipendenza economico-finanziaria ma nello stesso tempo è anche la regione più militarizzata del Pianeta. Insomma, è il luogo del confronto tra le grandi potenze di oggi: USA (iperpotenza in declino), Cina (grande potenza in forte ascesa), Russia (ex superpotenza tornata prepotentemente sulla scena politica mondiale), India (altro colosso demografico in ascesa) e Giappone (terza economia mondiale, già locomotiva economica negli anni Ottanta come lo è oggi la Cina). Impreparata a questa prova appare l’Europa, troppo concentrata sul problema identitario, lacerata soprattutto dalla contrapposizione tra sovranismo ed europeismo. In Europa, più che in altre regioni, la contrapposizione “nazionale vs. globale” ha ormai soppiantato l’obsoleto modello politico del secolo scorso “destra vs. sinistra”. Eppure, come vedremo, proprio dalla terribile esperienza del Coronavirus Bruxelles potrebbe ricevere la spinta decisiva ad esprimere proattivamente le sue enormi potenzialità nel proscenio della politica mondiale.

 

Indubbiamente, il confronto tra gli Stati Uniti e la Cina è il grande gioco del Nuovo Secolo. Pechino, consapevole dell’enorme potere accumulato anche in termini di soft power, mira a diventare l’egemone regionale. Da parte sua Washington, che per i prossimi decenni continuerà ad essere l’indiscussa prima potenza militare ma che dopo il breve "unipolar moment” (Ch. Krauthammer,“The Unipolar Moment”, Foreign Affairs, 70/1, 1990/91) è ormai anche consapevole dell’impossibilità di esercitare l’egemonia a livello mondiale in un sistema che alla dimensione interstatale si è sovrapposta quella globale con un’ampia e largamente incontrollabile zona di transnazionalità, cerca di contenere la Cina con l’obiettivo di continuare a svolgervi il tradizione ruolo di offshore balancer, di stabilizzatore esterno (F. Mazzei, Relazioni Internazionali, EGEA, 2016). Bisogna aggiungere che recentemente si sta affermando tra gli studiosi americani una corrente di pensiero secondo cui gli Stati Uniti dovrebbero far fronte all’oggettiva perdita di quote d’egemonia accettando le “sfere d’influenza”, una nozione fondamentale della vecchia geopolitica che implica di fatto la condivisione del potere mondiale con altre grandi potenze, con specifico riferimento a Cina e Russia (Graham Allison, “The New Spheres of Influence - Sharing the Globe with Other Great Powers ”, Foreign Affairs, n. Marzo/Aprile 2020).

 

Allora, quali potrebbero essere gli effetti del post-COVID-19 su questo confronto e in particolare sulla formazione dei due schieramenti? Nessuno conosce il futuro, tuttavia essendo profondamente consapevoli che in ultima analisi è l’uomo l’elemento cruciale della geopolitica, possiamo provare a immaginarcelo cercando di partecipare alla sua costruzione per non diventare poi passivi spettatori o, peggio, inermi prede dei mutamenti epocali in corso.

 

2. - In termini generali, si può dire che la pandemia, più che creare rotture o nuove aggregazioni, è un potente acceleratore delle radicali trasformazioni e delle tendenze in atto. Purtroppo, m’è sembrata di cattivo auspicio la gretta arroganza mostrata dal Presidente Donald Trump nella gestione di questa emergenza. Tra ingiustificabili ritardi (essendo gli Stati Uniti colpiti dall’epidemia ben dopo la sua diffusione in Europa), repentine virate e incomprensibili esitazioni, per deviare la critica interna Trump ha indicato nemici esterni, accusando l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) d’essere filo-cinese e, soprattutto, denunciando il “virus cinese” con una martellante campagna sino-fobica: China-bashing, “Dare addosso alla Cina!”, sembra che sia diventato il nuovo sport americano (Gerard Baker, The Times, 22 aprile 2020). Insolitamente dura e soprattutto esplicita è la risposta cinese contenuta in un recente editoriale del Global Times, un tabloid prodotto dall’organo ufficiale del PCC, il Quotidiano del Popolo, con cui si accusa la Casa Bianca di “distorcere i fatti” sperando di “cogliere due piccioni con una fava: favorire la rielezione di Trump alle elezioni di novembre e colpire la Cina, simbolo del socialismo che odia, e di cui non può accettare la crescita e il successo”. Al di là del desolante panorama dato dallo scambio di accuse e controaccuse da entrambe le parti, è a dir poco sconcertante che il Presidente della più grande democrazia e leader dell’Occidente disprezzi la scienza in modo così sfrontato e bullizzi il prestigioso immunologo prof. Antony Fauci (da lui stesso chiamato a guidare la task force per l'emergenza del COVID-19) minacciandolo ripetutamente di licenziamento solo perché in disaccordo su questioni di natura medica.

 

In realtà, nemmeno di buon auspicio m’è parso il comportamento del Presidente Xi Jinping, connotato da una auto-compiaciuta “benevolenza” (in cinese è ren), che secondo il Confucianesimo è la madre di tutte le virtù ma che per gli Occidentali denota ambiguità e ipocrisia. Xi Jinping, dopo aver riconosciuto i gravi ritardi decisionali agli inizi dell’emergenza sanitaria (che invero sono frequenti nel tradizionale esercizio del potere nei paesi confuciani, ove è rigidamente gerarchizzato), ha lanciato una sorta di “diplomazia sanitaria” o umanitaria inviando aiuti in uomini e presidi sanitari (talvolta di qualità scadente) ai paesi maggiormente colpiti dal virus, in primo luogo l’Italia, e alla stessa OMS. Opera meritoria senza dubbio ma con un malcelato messaggio nient’affatto apprezzabile e per di più poco rassicurante: la vittoria contro la pandemia è la prova della superiorità del “modello cinese”.

Come ben sappiamo, questo modello - al di là del pesante autoritarismo politico accentuatosi ancor più proprio con l’arrivo al potere di Xi nel 2012 - implica un rigido rispetto delle regole di confinamento e un severo regime di sorveglianza di massa nel quadro, appunto, di una gestione verticale del potere che - al contrario di quanto avviene in Occidente - privilegia i valori comunitari ma non tiene nel dovuto rispetto i valori della persona umana. Per inciso, come ha osservato in un interessante intervento su Foreign Policy Stephen M. Walt, uno dei maggiori esponenti del cosiddetto “realismo difensivo”, questa rigida verticalizzazione del potere da una parte è stata forse la causa principale del ritardo di Pechino nell’ammettere l’esistenza dell’epidemia, dall’altra ha reso possibile un rapido superamento della fase critica dell’emergenza con una mobilitazione tempestiva ed efficiente, imponendo quarantene su intere città e altri controlli severissimi. Con l’uso di sofisticate tecnologie si monitorizzano gli individui 24 ore su 24 “sopra e sotto la pelle”, individuando ed eventualmente punendo severamente coloro che non rispettano le draconiane regole imposte per contenere il virus (Yuval Noah Harari, Financial Times, 21 marzo 2020).

Primato americano vs mondo sinocentrico

Attenzione! L’“arroganza” di Trump e la “benevolenza” di Xi non vanno sottovalutate come semplici comportamenti inappropriati o scorretti da parte dei due leader politici: quel che preoccupa è che questi comportamenti interpretano (anche se maldestramente e in misura diversa nei due casi) elementi profondamente radicati nella memoria dei due popoli, che sono fattori essenziali della rispettiva autorappresentazione geopolitica (come si dice in gergo). Questi elementi sono da una parte la nozione del primato americano (America first), che è cristallizzata nella tradizionale politologia statunitense sotto forma di “Destino Manifesto”. In altre parole, la convinzione che gli Stati Uniti d'America - secondo il mito ancestrale della “Città sulla Collina” - abbiano la missione ricevuta da Dio di migliorare l’ecumene diffondendo la loro forma di libertà e democrazia con l’esempio e, all’occorrenza, con una bella guerra preventiva o addirittura con una, anzi, con due bombe atomiche!

Dall’altra parte c’è il sogno cinese di un mondo sinocentrico, la tradizionale nozione confuciana di Tianxia (letteralmente “[tutto ciò che è] sotto il Cielo), vale a dire un impero potenzialmente universale centrato sulla Cina e avente per confini isobare culturali basate su valori confuciani, che in età imperiale s’identificava con l’Impero stesso (e nella percezione cinese, con l’intero mondo civilizzato): in breve, un mondo Chinese speaking e non più solo inglese. Come è noto, questa visione sinocentrica del mondo costituisce il filo rosso della multi-millenaria storia del “Paese del Centro” (ribadiamolo: non “di mezzo” come per pigrizia linguistica ancora oggi ostinatamente si continua a dire in Italia, giacché per i cinesi la Cina non è la Mesopotamia bensì il “centro del mondo”).

In definitiva, sia il “primato americano” sia il “sogno cinese” sono due visioni intrinsecamente caratteirzzate da eccezialismo, messe efficacemente a confronto da Tom De Luca (in “Exceptionalism and Chinese National Identity: How Dangerous is the Exceptionalism Narrative?” (paper presentato al Western Political Science Association Annual Meeting, svoltosi il 29/3/ 2018 a San Francisco, California). Certo, si tratta di miti geopolitici, di belle storie (o “narrazioni” come si usa dire oggi) a cui la gente vuol credere; ma politicamente contano, eccome! Come ci ha insegnato Karl Popper, l’uomo come individuo e come comunità tende inconsciamente a sovrapporre gli schemi mentali della propria tradizione culturale (i cosiddetti “software culturali”) alla realtà oggetto di osservazione e comprensione.

In breve, al di là delle chiassose e spesso spregiudicate sortite nazional-protezionistiche di Trump da una parte e delle dichiarazioni ambiguamente rassicuranti di Xi Jinping dall’altra, la verità è che entrambe le Grandi Potenze mirano, secondo le rispettive logiche geoculturali di potenza alle quali sopra si è accennato, ad adeguare ai propri interessi la globalizzazione e gli altri macrofenomeni (come la digitalizzazione sociale), i cui vincoli di fatto stringono come in una camicia di forza non solo i piccoli stati ma anche le grandi potenze. Così il mondo, senza una qualche visione comune e senza un’adeguata comprensione della diversità, dopo la pandemia navigherà pericolosamente “in gran tempesta”, privo di una governance in grado di prospettare un ordine globale preferibilmente più “umano”, connotato cioè di una nuova pietas che, in una visione condivisa, accordi pur nella diversità l’umanesimo individualistico della grande tradizione occidentale con la benevolenza comunitaristica della dottrina socio-politica del Confucianesimo, che storicamente dalla Cina si è diffuso nei paesi vicini, segnatamente in Corea, Giappone, e Vietnam. Come ammoniva Seneca, “il marinaio potrà utilizzare il vento solo se egli sa a quale porto intende approdare”. Il COVID-19, dopo “il grande male” prodotto, potrebbe rivelarsi un vento favorevole per poter approdare a un mondo migliore, sempre che l’uomo sappia rispondere a questa terribile sfida trasformandola in opportunità, come tante volte nella sua storia ha dimostrato di saper fare. E a questo fine, avere una prospettiva largamente condivisa è condizione indispensabile.

 

3. All’orizzonte non appaiono segnali di un radicale mutamento nelle grandi traiettorie geopolitiche delle due maggiori potenze, e quindi di un nuovo ordine mondiale da sovrapporsi a quello stabilito durante la Guerra Fredda, ormai in rovina sotto i fendenti menati soprattutto dagli Stati Uniti, che ne sono stati i principali costruttori. I grandi cambiamenti che l’esperienza pandemica produrrà nei comportamenti individuali e negli stili di vita sono oggetto di approfondite riflessioni da parte di intellettuali e studiosi di scienze sociali, ma anche di dispute - molto spesso scomposte - nei mezzi di comunicazione di massa e nei social-media in cui domina lo slogan rassicurante “Tutto andrà bene”. Purtroppo, come tutti ben sappiamo, l’esito non è affatto scontato: molto dipenderà dalle decisioni prese non solo dai governi ma anche dalla gente, cioè, dal grado di responsabilità e di disponibilità alla collaborazione da parte dei singoli individui. Con la consueta lucidità, lo storico israeliano Harari schematizza queste decisioni in due scelte strettamente legate tra loro:


- sorveglianza totalitaria o responsabilità dei singoli

- isolazionismo degli Stati o solidarietà globale.


Seguendo l’obiettivo prefissatoci, ora ci soffermiamo su alcuni mutamenti di natura economica e geopolitica riguardanti l’Asia-Pacifico, per poi fare alcune riflessioni che ci aiutino a prospettare qualche scenario di carattere generale partendo dall’assunto che è l’uomo il fattore decisivo della geopolitica..

Dopo che Trump nel 2017 ha dato il colpo di grazia al TPP (il Partenariato Trans-Pacifico, un gigantesco accordo commerciale fortemente voluto dall’amministrazione Obama e siglato da dodici paesi sulle due sponde del Pacifico, esclusa la RPC), l'unilateralismo e il protezionismo sono state le linee guida della politica commerciale americana, imponendo tariffe che ora si aggirano intorno al 20 percento. Tuttavia molti paesi dell’Estremo l’Oriente stanno seguendo il percorso opposto, lavorando per una zona regionale di libero scambio, tra cui una seconda versione del TPP, l'accordo globale e progressivo per il partenariato trans-pacifico (CPTPP) che incorpora la maggior parte delle disposizioni del vecchio TPP. Ma c’è di più, come ci ha ricordato recentemente Claudio Landi con la sua utile rubrica settimanale, L’ora di Cindia, i paesi di quella regione hanno un potenziale strumento formidabile per riordinare l’intero assetto capitalistico regionale e finanche mondiale: è il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), un Accordo economico pan-asiatico che include la Cina ed esclude gli Stati Uniti e i cui protocolli sono stati concordati alla fine del 2019. Ne fanno parte i dieci paesi membri dell’ASEAN più altri cinque paesi della regione: Cina, Giappone, Corea del Sud Australia e Nuova Zelanda (l’India, che inizialmente aveva aderito, ha poi deciso di uscire dai negoziati per timore che l’accordo possa essere di nocumento per la propria economia).


Quale è il significato geo-economico di questo progetto, che se andasse in porto creerebbe una zona commerciale di circa due miliardi e mezzo di persone, di un po’ meno di un terzo del Pil mondiale e più un quarto delle esportazioni di tutto il Pianeta? Se sarà realizzato, sarà un catalizzatore per il “disaccoppiamento” (decoupling) tra le due maggiori economie del mondo, che peraltro va inquadrato nel contesto generale di una profonda revisione delle relazioni tra Washington e Pechino, di cui peraltro l’esperienza pandemica in corso sta accelerando il divide.

Da una parte la Cina dichiara apertamente la propria traiettoria globalista di medio e lungo periodo, esemplificata dalla Nuova Via della Seta fortemente connotata da sinocentrismo; dall’altra gli Stati Uniti di Trump, apertamente anti-statu quo, appaiono aggrappati alla dottrina dell’America First con i corollari dell’isolazionismo e delle alleanze case-by-case (entrambi i corollari raccomandati a suo tempo da George Washington nel suo celebre “Discorso di commiato”).


In realtà, per gli Stati Uniti questa sarebbe una ottima occasione per una consistente “de-sinizzazione” di produzioni, soprattutto in settori ritenuti strategici, e un pesante danno per la Cina. Tuttavia, contrariamente alle aspettative, non si prevede una massiccia “americanizzazione” di queste produzioni giacché le grandi transnazionali, anziché fare l’auspicato reshoring, cioè invece di “tornare a produrre in patria”, hanno già messo gli occhi su altri paesi asiatici dove i salari sono più bassi di quelli praticati in Cina, i profitti garantiti e soprattutto i regimi favorevoli a Washington. Per fare qualche nome, il Bangladesh, il Vietnam e la stessa India. A questo riguardo è significativa la proposta avanzata da politici vicini al Presidente Trump di imporre per legge alle aziende statunitensi il loro “rientro in patria”! Comunque sia, nell’insieme la Cina potrebbe avere qualche vantaggio economico rispetto agli USA, fra cui la possibilità di cominciare la ripresa con qualche anticipo. Quel che appare certo è che la guerra commerciale tra Washington e Pechino, che il COVID-19 inasprirà, si rivelerà dannosa per entrambe le economie e che la scomposta la reazione americana rischia di trasformarsi in un boomerang.

 

Zhou Enlai a pranzo con Henry Kissinger nel 1971 a Pechino


Anche sul piano politico, che a noi interessa specificamente in questa sede, Washington potrebbe risultare maggiormente danneggiata. Tuttavia, mi pare un’esagerazione smaccatamente etnocentrica la tesi del celebre intellettuale singaporiano Kishore Mahbubani, conosciuto anche in Italia per i suoi interventi sul Corriere della Sera, secondo cui “l’incompetente risposta data dall’Occidente alla pandemia accelererà lo spostamento dell’equilibrio mondiale verso Est, dischiudendo così l’alba del secolo asiatico”. All’opposto, Edward Luttwak, studioso americano di strategia militare e consulente strategico del governo degli Stati Uniti, in un’intervista ha dichiarato che l’epidemia del coronavirus è la “Chernobyl di Pechino” e segnerà la capitolazione del suo regime (La Verità, 30 marzo 2020). Secondo questo esperto d’origine rumena, “il contagio è l’unica via d’uscita” per cui “tutti devono essere contagiati” (sic!).


Più convincente è la tesi del vecchio Henry Kissinger, il quale sostiene che per non cadere nel caos socio-economico post-pandemia e soprattutto nell’insicurezza globale è necessario ritrovare un nuovo equilibrio in cui l’Occidente, in maniera unitaria, dovrebbe far perno sulle sue organizzazioni internazionali più significative, come la NATO e l’UE. Come si vede, questa tesi di Kissinger, che nel 1972 organizzò la celebre visita di Nixon in Cina con l’obiettivo di trasformare - già allora - la struttura del sistema internazionale da bipolare in pentapolare (USA, URSS, RPC, Giappone e Comunità Europea), non è affatto in contrasto con la tesi delle “sfere d’influenza” di ‘Graham Allison enunciata all’inizio. Problematico è, tuttavia, il suo richiamo all’unità dell’Occidente, proprio mentre la “distanza transatlantica” tra Stati Uniti ed Europa purtroppo continua progressivamente ad allargarsi.


Quel che appare certo, ripetiamolo, è che il confronto sino-americano post-COVID-19 sarà più duro (indipendentemente dall’esito delle prossime elezioni presidenziali americane); e questo creerà sconcerto tra gli attori della regione, in particolare tra i tradizionali alleati di Washington, che cerca di “contenere” Pechino come aveva fatto con l’URSS durante la Guerra Fredda. In questo contesto, è utile ricordare che già nel 2005 il segretario di stato Condoleezza Rice in un discorso tenuto alla Sophia University di Tokyo aveva sostenuto la necessità di alleanze in Asia (con specifico riferimento all’India, alla Corea del Sud e al Giappone) al fine di evitare che la Cina crescesse “senza guinzaglio” ("untethered"). Per usare il gergo dei teorici delle Relazioni Internazionali, il mutato equilibrio di potenza conseguente alla “transizione del potere” e l’inasprimento del confronto tra le due maggiori potenze potrebbero in effetti tentare gli alleati di Washington a sostituire, come tendenza strategica dominante, il contenimento con il bandwagoning.


Mi limito a ricordare alcuni casi. Il primo è l’Australia, che dal punto di vista geoculturale è occidentale e geopoliticamente alleato di Washington, ma che negli ultimi decenni ha accresciuto i rapporti economici con Pechino e altri paesi asiatici. E’ evidente che a causa dell’acuirsi del confronto tra la Cina, che è il maggior partner commerciale di Canberra, e gli Stati Uniti, che sono il più importante alleato strategico, per i policy makers australiani sarà sempre più complicato continuare a stare dalla parte degli americani. Lo stesso dilemma si presenta per la città-stato di Singapore, uno tra i principali centri finanziari del mondo. Sostanzialmente Singapore è un’enclave cinese, ma è un alleato di Washington. Significativa a questo riguardo è la dichiarazione fatta recentemente dall’attuale Primo Ministro Lee Hsien Loong: “Singapore è un partner stretto degli Stati Uniti, ma ha anche legami molto stretti con la Cina”.


Ma il caso più eclatante è il Giappone, il più fedele e importante alleato degli Stati Uniti. Come è noto, il Giappone, a causa anche delle sue connotazioni geoculturali (insularismo geografico + particolarismo culturale) è scarsamente “pro-attivo” ma in compenso è molto “reattivo”: è un eccezionale “secondo” dotato di una straordinaria resilienza in grado di trasformare una minaccia in opportunità, di fare “rivoluzioni” senza bagni di sangue e, soprattutto, di superare il modello di volta in volta prescelto. In breve, mentre gli Stati Uniti e la Cina sono bound to lead, il Giappone è “destinato a inseguire” (bound to follow), ma quasi sempre taglia per primo il traguardo. Bene, negli ultimi ottant’anni, dopo aver scelto come modello il vincitore americano nel 1945, il Sol Levante ha sopportato di tutto da parte di Washington senza mai lamentarsi: dalle due bombe atomiche del 1945 alla feroce campagna nippofobica degli anni Ottanta, nota come Japan-bashing (“Dare addosso al Giappone”, che allora era la locomotiva dell’economia mondiale, come lo è oggi la Cina, e non a caso ora si dà addosso a Pechino!); al duro contenzioso noto come SII (Structural Impediments Initiative) col quale si chiedeva ai giapponesi – minacciando ritorsioni - di “lavorare meno e consumare di più” seguendo il modello americano; alla sopravalutazione dello yen con l’accordo del Plaza del 1985 che, imponendo una forte rivalutazione della valuta giapponese (endaka) per frenare le esportazioni nipponiche, di fatto creò i presupposti per la crisi deflazionistica da cui ancora oggi Tokyo non riesce ad uscire.


A ciò si aggiungano le periodiche minacce di Trump... Eppure, dalla fine della Guerra del Pacifico non si è mai sentito un leader giapponese lamentarsi ufficialmente nei confronti di Washington. Ebbene, per la prima volta alcuni mesi fa il Primo Ministro Abe Shinz? ha detto l’indicibile: “Il Giappone è un fedele alleato degli Stati Uniti, ma non a prescindere”! Forse la leadership giapponese (il tradizionale “triangolo di ferro” composto dai vertici della burocrazia, della politica e del business) comincia seriamente a porsi il problema del “rientro in Asia”, da cui era uscito dopo il duplice olocausto atomico per trovar protezione sotto l’ombrello degli Stati Uniti, anche se nel contempo forte è la tentazione per le grandi aziende giapponesi di approfittare delle difficoltà che oggi la Cina sta attraversando per rafforzare le loro posizioni nella regione. In realtà, l’idea di cambiare “tropismo”, cioè di mutare la sua relazione verso il mondo esterno sostituendo all’americanismo l’asiatismo, circola da tempo in certi ambienti nazionalistici nipponici (F. Mazzei, “Il ritorno del Giappone”, in limesonline.com, 26/10/2007).

Del resto, un “rientro” del Giappone avrebbe effetti geostrategici sconvolgenti perché implicherebbe un “accomodamento tra Tokyo e Pechino”… Mutatis mutandis, è come se in Europa, crollata l’UE, all’asse “Parigi-Berlino” si sostituisse l’asse “Berlino-Mosca”: una prospettiva questa il cui solo pensiero fa “vedere i sorci verdi” agli uomini del Pentagono, e non solo ad essi (G. Friedman, The Next Decade, Media tipe, 2012).

 

4. In conclusione, la previsione realista è che il confronto politico-economico tra la Cina e gli Stati Uniti dopo la pandemia diventerà più pericoloso, con un probabile rafforzamento della posizione cinese nella regione, e senza purtroppo poter escludere sciagurate ricadute di tipo militare, data l’esistenza in quell’area di vari flash-point, pericolose aree di attrito come il problema nord-coreano, la questione di Taiwan, il “dilemma di Malacca” (cioè il timore che un eventuale blocco navale dello stretto possa strangolare l’economia cinese che è fortemente basata sul commercio marittimo), le continue e diffuse tensioni causate dalla disputa sulle isole del Mar Cinese Meridionale. A meno che - ecco la visione di molti movimenti idealisti - tutti gli attori geopolitici (in testa, USA e RPC) decidano di “rovesciare il tavolo della globalizzazione”. Il che significherebbe rivedere le catene di approvvigionamento capitalistico, tener conto dei problemi sociali ed ecologici, preferire il dialogo alla legge del più forte, imporre nuovi criteri di cooperazione... Campa cavallo! verrebbe da esclamare.

 

Non c’è dubbio: l’emergenza COVID-19 è un colpo molto duro alla globalizzazione a vantaggio dei movimenti sovranisti, nel senso che gli Stati, segnatamente in Europa, hanno un ulteriore motivo per la difesa della loro sovranità (S. M. Walt). In realtà, la globalizzazione, nell’accezione lata di Thomas Friedman avente come effetto primario il dinamico rimpicciolimento del mondo (dynamic shrinking), ha vacillato periodicamente fin dalla sua affermazione avvenuta nel diciannovesimo secolo grazie a nuove istituzioni e alla nascita di mercati globali. Era il periodo della Pax Britannica durante la quale la Royal Navy controllava in modo incontestato la maggior parte delle principali rotte commerciali marittime. A parte il suo clamoroso “crollo” nel periodo della Belle époque che portò all’immane tragedia del 1914, solo in questi due decenni d’inizio secolo la globalizzazione è stata in pericolo più volte: nel 2008 con la crisi finanziaria dei subprime, poi nel 2015 con la questione dei migranti in Europa, poi ancora con la guerra commerciale tra gli Stati Uniti e la Cina e oggi con l’emergenza sanitaria.

 

Come s’è accennato, la globalizzazione, quanto meno nell’accezione riduttiva usata dai realisti, cioè semplicemente come una forma di “interdipendenza economica rafforzata”, è un macro-fenomeno che non ha senso voler eliminare; ma certamente i suoi soffocanti vincoli, che stringono come in una morsa tutti gli Stati (seppure in modo diverso) devono essere controllati, devono essere “gestiti”. Ma in che modo e da chi? Se l’ economia, l’ecologia e l’emergenza sanitaria sono globali, al contrario la politica è ancora nazionale, basata sugli stati-nazione; e quest’ultimi all’inizio del nuovo millennio appaiono troppo grandi per i piccoli problemi e troppo piccoli per quelli grandi. Tenuto conto dei soffocanti vincoli dei macrofenomeni da una parte e dell’inefficienza del sistema politico a livello globale dovuta anche al crescente divide tra le due maggiori potenze dall’altra, che facciamo? De-globalizziamo l’economia o globalizziamo la politica? Qui sta il busillis, come si diceva un tempo e come vedremo nel prosieguo di questo paragrafo.

 

Per ora non s’intravedono scenari anti-globalizzazione credibili prospettati da leader populisti, i quali appaiono screditati dalla loro incompetenza nella gestione del potere in un fase di crescente transnazionalità e più in generale dal loro disprezzo per la scienza o, più correttamente, per la conoscenza. Si è consapevoli che la scienza è costantemente in evoluzione e che non è affatto dogmatica, vivacizzata com’è da dispute accademiche e da teorie contrapposte (che di per sé non sono né né false, ma che devono essere “progressive”, cioè utili per una migliore comprensione della realtà). Pertanto, non deve essere affatto sottovalutata la pericolosità delle perniciose trappole delle argomentazioni emotive “post-verità” così diffuse oggi, che basate su credenze largamente condivise e non su fatti verificati tendono a essere accettate come veritiere influenzando e confondendo l'opinione pubblica.

 

Va aggiunto, tuttavia, che effettivamente l’esperienza drammatica che stiamo vivendo e soprattutto la conseguente spaventosa crisi economica che si prospetta potranno rafforzare l’antiglobalismo e creare nel post-coronavirus un’atmosfera politica di rabbiosa disperazione e di diffusa rivolta sociale favorevole al rafforzarsi del nazionalismo. E questo spesso “va di pari passo con la politica dell'uomo forte”, come ha sottolineato recentemente Sylvie Kaufmann su Le Monde. In ogni caso, anche in questi tempi di diffuso “ribellismo bio-politico”, per le ragioni che vedremo, non è detto abbia la meglio il “pancismo”, il quale fa appunto presa sugli impulsi emotivi delle persone per ottenere consenso spingendo all’odio e al mero rancore. Del resto, ormai sappiamo che “anche la pancia ha un cervello… essa assimila e digerisce non solo il cibo, ma anche informazione ed emozioni che arrivano dall'esterno” (Michael D. Gershon, esperto di anatomia e biologia cellulare della Columbia University).

 

Generalizzando e riprendendo la schematizzazione di Harari, possiamo collocare le principali traiettorie possibili tra i seguenti opposti polari:


far perno sullo statalismo, sul ruolo degli Stati anche per la gestione di problemi transnazionali (le grandi questioni come ad esempio l’emergenza sanitaria in corso). Questo implica de-globlalizzazione con isolazionismo dei governi nazionali, sottovalutazione dei problemi riguardanti la eco/bio-sfera, bilateralismo, esclusione con creazione di muri, approccio win-lose (a somma zero o addirittura negativa), ecc.;

provare a gestire la globalizzazione e gli altri macrofenomeni social con una qualche forma di governance che abbia una prospettiva largamente condivisa e che sia in grado di controllare in primo luogo gli effetti perversi della finanziarizzazione, ovvero della cosiddetta doppia subordinazione: la politica all’economia, e l’economia alla finanza (Enciclica di papa Francesco, Laudato si’, 2015). Oltre ad una certa dose di transnazionalismo, questa tortuosa traiettoria implica multilateralismo, inclusione, cooperazione tra gli Stati, approccio win-win, ecc.

 

 

È chiaro che la strada più facilmente percorribile è la prima: il “rafforzamento dello Stato-nazione”, che in ogni caso continuerà ad essere l’attore per eccellenza delle relazioni internazionali anche in un sistema globalizzato. Tuttavia, la storia c’insegna che questa soluzione può essere molto pericolosa in quanto porta facilmente al crollo del commercio internazionale, alla depressione economica, all’abbandono della cooperazione tra gli Stati, all’inasprirsi delle tensioni internazionali e al moltiplicarsi di conflitti. Sotto questo aspetto, lo scenario peggiore sarebbe la rottura delle relazioni tra Washington e Pechino perché foriera di una situazione devastante per tutti. Come ci ha ricordato in questi giorni The Guardian, la de-globalizzazione non è di per sé impossibile; ad esempio, c’è stata nel periodo tra le due Guerre Mondiali (tra 1914 e il 1945), che alcuni storici ormai chiamano la “Seconda Guerra Europea dei Trent’anni” (con un armistizio lungo un Ventennio): ma a quale costo?!
La seconda strada è certamente più rassicurante ma molto più difficile da percorrere.

 

Innanzitutto, bisognerebbe inventarsi una governance globale che non si sa come debba essere. Semplicemente come mera ipotesi, si potrebbe trasformare il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, adeguatamente riformato, in una istituzione mondiale con poteri sovranazionali riguardanti specifici temi transnazionali. In ogni caso, dato il noistro assunto teorico inziale, quel che più conta per la legittimazione di questo tipo di governance è che si diffonda largamente nel mondo l’interiorizzazione di un’identità “globale” che non sia conflittuale bensì complementare con quella “nazionale”, quest’ultima già ben consolidata da secoli di sistema internazionale vestfaliano.

 

Qualche idea specifica in proposito l’avrebbero i cinesi per i quali, tra l’altro, i due principi fondamentali della loro ontologia tradizionale, yin e yang, sono sì diametralmente opposti ma non sono in contraddizione: sono, appunto, contrari e complementari. ? noto che la logica confuciana è più tollerante di quella occidentale di tradizione aristotelica, che è invece basata sul rigido principio di non-contraddizione e del terzo escluso (tertium non datur). In breve, in Cina essere nello stesso tempo rossi e neri, comunisti e capitalisti non è un problema: lo è per la tradizione occidentale con il suo rigido dualismo (“essere o non essere”) ma non per i confuciani che al dilemma preferiscono il più accomodante tetralemma.

 

In relazione a questo punto, è interessante la teoria proposta da Zhao Tingyang, uno dei maggiori filosofi cinesi contemporanei, nota come “sistema Tianxia”, con cui si cerca di adattare la tradizionale nozione confuciana di Tianxia (“[Tutto ciò che è] sotto-il-Cielo”) al mondo globalizzato di oggi con l’obiettivo di garantire un mondo “armonico”. (Una sintesi di questa teoria è disponibile in italiano su Limes, n. 4/2008). Zhao parte dall’assunto che il mondo di oggi, risultato di secoli di egemonia occidentale, è un “non-mondo” costituito da Stati-nazione sovrani che sono incapaci di cooperare realmente in quanto portatori di interessi particolari, spesso in contrasto con quelli collettivi e globali. Al contrario, sulla base della tradizionale nozione di Tianxia, egli prospetta una cultura politica che sviluppi solidarietà e cooperazione tra i popoli, premessa per la creazione di un “governo sovranazionale” che salvaguardi le specificità delle economie e dei valori dei singoli Stati.

 

Semplificando potremmo dire che Zhao abbia teorizzato una “quarta cultura” politica, in aggiunta alle tre classiche della tradizione occidentale così come schematizzate da A. Wendt: hobbesiana (propria dei realisti: l’Altro è un nemico), lockiana (dei liberali: l’Altro è un rivale) e kantiana (dei costruttivisti: l’Altro è un concorrente o un amico). (F. Mazzei, La nuova mappa teoretica delle Rleazioni Intenrazionali. Dalla “sintesi neo-neo” al costruttivismo sociale, L'Orientale Editrice, Napoli, 2001). Secondo Zhao, il Tianxia può svilupparsi solo organicamente, e non attraverso la forza, cui invece hanno fatto ricorso gli imperi universali come quello romano: anche per Roma l’obiettivo era pacem dare, però imponendo la lex romana manu militari.
Un elemento essenziale della tesi di Zhao è la trasformazione di istituzioni internazionali come l’ONU (che è un’organizzazione di Stati per negoziare gli interessi dei singoli paesi) in istituzioni globali/sovranazionali, come il Tianxia che invece dovrebbe essere un’istituzione “sovranazionale” per reinterpretare i problemi del mondo in una visione globale. Sotto questo aspetto, il contributo di questo filosofo non è altro che una teoria di come il nazionalismo diventi globalismo. Purtroppo, come acconciamente ha commentato Zhang Feng della Tsinghua University di Pechino, “Zhao ha mancato di indicare una via concretamente percorribile per connettere il passato [cinese] e il futuro [mondiale]”.


Si è già accennato alla relativa normalità con cui in Cina due opposti polari possano essere complementari tra loro; ne consegue che interiorizzare un’identità “transnazionale/sovranazionale” che si aggiunga a quella “nazionale/statale” senza creare contrapposizione non è particolarmente complicato. ? opportuno ricordare che nella Cina di oggi il processo identitario è condizionato non tanto dall’opposizione “nazionalismo/globalismo” come in Europa, ma da due fattori specifici. Il primo è la consapevolezza che il “Paese del Centro” durante la sua lunga storia, a differenza di tutte le altre grandi civiltà, ha avuto uno “sviluppo ortogenetico”, cioè continuo senza significative discontinuità dal punto di vista geografico, antropologico e culturale: si pensi, ad esempio, alla straordinaria continuità del Confucianesimo, alla forza del comunitarismo, al perdurante uso nell’era del digitale della scrittura ideografica che è di tipo analogico. Per contrasto, si pensi alle differenze tra l’Egitto dei Faraoni e l’Egitto di oggi: diverso tutto, dalla lingua alla religione.

 

Il secondo fattore è la percezione geopolitica della centralità, da cui derivano la visione sino-centrica fondata sulla nozione di Tianxia e storicamente la creazione di un sistema internazionale gerarchico, noto ai sinologi come Ordine Mondiale Sinocentrico (OMS), avente al centro la Cina con una corona di stati legati a Pechino da rapporti più culturali e commerciali che politici. Questo particolare sistema internazionale, che al massimo del suo sviluppo nel XVI secolo s’estendeva fino al Ceylon e alla Malacca, fu dominante per secoli nell’Asia Orientale e fu soppiantato da quello Vestfaliano, imposto dalle potenze colonialistiche europee nella seconda metà del XIX secolo con la “politica delle cannoniere”.

 

Pertanto non dovrebbe sorprendere che nella Cina di oggi l’identità è in genere tri-dimensionale. La prima dimensione è di natura culturale: si è cinesi perché ci si sente membri del Tianxia, che come già detto è una sorta d’impero potenzialmente universale fortemente connotato da valori confuciani. La seconda dimensione è politica: si è cinesi perché si è membri dello Stato cinese, del Zhongguo (la RPC). Infine, la terza dimensione è etnica: si è cinesi perché di etnia han (più del 90% della popolazione della Cina). Va rilevato che questa terza dimensione identitaria è la più recente, essendo stata introdotta nel dibattito politico verso la fine del XIX secolo in funzione anti-dinastica (la dinastia del tempo era di etnia mancese).

Cina ed Europa alle prese con identità e sovranità

Più complessa (ma anche più interessante per lo storico) è il problema dalla multi-identità se riferito all’Europa, ove è già operante l’Unione Europea (UE), che è un’organizzazione ibrida: un mio studente coreano l’ha definita un “UPO”, Unidentified Political Object, un oggetto politico non-identificato in quanto non è uno stato, non è una federazione, non è una confederazione… In realtà, l’UE è una organizzazione politico-economica unica nel suo genere e continuamente in evoluzione, in larga parte frutto di volontarismo storico, molto apprezzato dagli studiosi asiatici (e dallo stesso Zhao Tingyang) nonostante le difficoltà che sta attraversando proprio per il suo carattere innovativo in quanto vi intravedono una futura e auspicabile organizzazione politica del mondo.
Purtroppo nella pubblicistica occidentale molto spesso non si tiene conto che l’UE è essenzialmente internazionale (cioè interstatale), in quanto le grandi decisioni spettano agli Stati membri, che sono quindi i responsabili delle grandi scelte o non-scelte politiche di Bruxelles; ma è dotata anche di organi sovranazionali che invece rappresentano gli interessi dell’Unione, come la Commissione (che è il suo organo esecutivo e promotrice del processo legislativo), il Parlamento (che rappresenta i popoli dell'Unione europea ed è l'unica istituzione europea ad essere eletta direttamente dai cittadini dell'Unione), la Banca Centrale Europea.

 

Quel che mi preme rilevare è che come in Cina ma anche nella storia europea esiste un significativo precedente sia di identità multiple non contraddittorie sia di sovranità frammentata e nel contempo sovranazionale. Il riferimento è ovviamente in primo luogo a Federico II di Svevia, la cui eccezionale personalità colpì i suoi contemporanei al punto da soprannominarlo Stupor mundi. Egli era re di Sicilia, duca di Svevia, re dei Romani, imperatore del Sacro Romano Impero, Re di Gerusalemme, parlava l’arabo (oltre a 5 lingue europee). Eppure egli preferiva essere chiamato puer Apuliae: prototipo esemplare di identità multiple nonché rappresentante della concezione europea di universalità. Si ritiene che egli abbia coniato l’espressione Res Publica Christiana, in genere usata per definire l’Europa medievale come “comunità cristiana”. I suoi fattori unificanti sono stati l’Impero come istituzione politica, la Legge Romana come diritto comune, il Latino come lingua franca (di cultura e di comunicazione) e la Cristianità Romana come religione.

 

Nella Res Publica Christiana il potere era frammentato, esercitato su due livelli chiaramente distinti: uno macro di carattere universale e uno micro di carattere locale. A livello macro, l’autorità era duplice, religiosa (il Papato) e secolare (l’Impero). Quella religiosa era esercitata dal papa in quanto capo della Chiesa Cattolica Romana, che aveva la funzione di collante tra i vari popoli fornendo tra l’altro una lingua comune, il latino. Il micro-livello di autorità era rappresentato dal sistema feudale, costituito da principati, ducati, baronie e altri domini su cui i nobili, organizzati gerarchicamente, esercitavano un’autorità quasi totale. Quel che va sottolineato è che monarchi e nobili, pur controllando specifici territori, in teoria non esercitavano la sovranità su di essi: era Dio, o meglio la Chiesa di Dio, che delegava il diritto di governare su determinate terre… In breve, dal punto di vista giuridico, la sovranità non esisteva o quanto meno era stratificata e territorialmente frantumata.

 

Questo sistema, dopo il glorioso periodo del Rinascimento, fu definitivamente spazzato via dalla pace di Vestfalia (1648) che, posto fine alle lunghe guerre di religione che avevano insanguinato l’Europa, stabilì la parità giuridica di tutti gli Stati cristiani. Questo sistema di Stati, specificamente europeo, successivamente fu imposto indiscriminatamente a tutto il mondo durante la fase della colonizzazione, che però oggi appare inadeguato a far fronte alle sfide del sistema divenuto globale.

 

Per concludere su questo punto cruciale, è forse opportuno rilevare che la multi-identità non dovrebbe essere un problema particolarmente complicato in Russia, grazie alla grande tradizione dell’Eurasiatismo, tradizione che ha sviluppato un dibattito identitario sull'interpretazione della storia russa e sulle relazioni di civiltà tra la Russia e l'Europa. Questo movimento, nato già in epoca zarista, si consolidò negli anni Venti del secolo scorso tra l'emigrazione "bianca" dei russi, dando un contributo originale alle teorie precedentemente elaborate dagli occidentalisti e dagli slavofili; poi soffocato durante la Guerra Fredda, è ora tornato prepotentemente alla ribalta.

 

Per gli Stati Uniti, il problema dell’identità plurima addirittura non si pone essendo la multi-identità un elemento intrinseco della breve storia di questo Stato: il suo stemma infatti, fin dalla nascita nel 1776, porta inciso il motto “E pluribus unum”, che allude alla pluralità di stati (e di etnie) uniti in una nazione. Il successo di questo processo dal punto di vista della politica estera è testimoniato dal perdurare della dottrina del Destino Manifesto con l’appendice dell’“eccezionalismo americano”; il fallimento dal punto di vista socio-culturale è invece chiaramente evidente nella sostituzione del vecchio modello d’integrazione, noto come “crogiolo” (melting pot), con quello di “insalata mista” che è fatta di tanti ingredienti ma è priva di una propria identità.

 

5.- Sensatamente gli analisti presentano lo scenario sociale e geopolitico post-Coronavirus a tinte fosche. Eppure, io non sono pessimista: sono convinto che l’uomo - elemento decisivo della geopolitica, come detto all’inizio – non potrà non trarre insegnamento da questa terribile ed eccezionale prova planetaria passando dalla paura all’audacia, il che significa saper contenere la rabbia o la protesta e mettersi invece a pensare. Nelle parole di Alessandro Baricco questo implica “capire, leggere il caos, inventariare i mostri mai visti, dare nomi a fenomeni mai vissuti, guardare negli occhi verità schifose e, dopo che hai fatto tutto questo, prenderti il rischio micidiale di dare a tutti qualche certezza”. Teniamo bene in mente che la durissima e angosciosa esperienza del Coronavirus è la prima prova di questo tipo ad essere condivisa quasi giornalmente me mesi a livello mondiale nella storia dell’umanità. Questa umanità, terrorizzata e smarrita di fronte ad un nemico comune e sconosciuto (o, più correttamente, in assenza di un nemico su cui scaricare frustrazione e collera), non può non avere avvertito d’essere estremamente vulnerabile, non può non aver sentito il bisogno di rafforzare il senso di unione e di partecipazione al di là delle singole etnie, nazioni, stati, schieramenti politici, religioni ed ideologie, alla ricerca di un nuovo ordine sociale costruito collettivamente.

 

A mio parere, quindi, non è una forzatura pensare che questo “accomunamento”, dettato da paura e angoscia finora sconosciute, possa far accrescere tra i popoli, tra la gente più che tra i governi, da una parte la responsabilità individuale e collettiva (il che, oltre tutto, significa per gli Occidentali tener maggior conto del “bene comune” e per i confuciani essere più rispettosi dei valori della “persona umana”), e dall’altra la consapevolezza di dover allargare gli spazi di cooperazione a livello globale. In breve, il COVID-19 potrebbe realmente rafforzare il senso di appartenenza a una “casa comune”, per usare una bella metafora di un grande gesuita dei nostri tempi.
Quel che accadrà a Bruxelles e il modo di comportarsi della gente nel corso della Fase 2 dell’emergenza potranno darci un segnale sulla direzione verso cui ci si sta avviando.

 

Il Professor Franco Mazzei è vice presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea